New York, 21 ottobre 1927: Constantin Brancusi (1876-1957) – ispido e schivo, poco incline a dar ragione dei suoi intenti poetici – si ritrova al centro di un celebre processo, abilmente orchestrato dall’amico Duchamp. La questione è delle più audaci: si tratta di stabilire se le creazioni dell’artista rumeno rientrino nel novero delle opere d’arte (esentate dai diritti di dogana negli Stati Uniti) o se non siano altro che semplici manufatti (come persino Giacometti, a suo modo, sosteneva). Era in gioco lo statuto e la legittimità dell’arte contemporanea, a cui il ready-made aveva già dato da poco scaccomatto. Del resto già nel ’12, al Salon de l’Aviation di Parigi, così Duchamp apostrofava Brancusi: «La pittura è finita. Chi potrebbe far meglio di questa elica? Dì, tu lo sapresti fare?». Il verdetto del giudice della Corte riconobbe l’artisticità dell’Uccello nello spazio; in che termini l’opera di Brancusi ha risposto invece alla seconda provocazione?
Per orientarsi nel panorama delle risposte critiche, ci viene ora in aiuto l’omonima monografia curata da Elio Grazioli per la Marcos y Marcos. Uno strumento indispensabile che colma una disattenzione editoriale – se non una decennale rimozione critica ed espositiva – e rende disponibili saggi e interventi in gran parte inediti in italiano. L’antologia alterna testi classici (Pound e Eliade in primis) a letture francesi, rumene, americane e italiane, e si articola in quattro sezioni:
Innanzitutto le forme, vibranti di luce e di vita: l’ovoide delle Muse, il dente di sega del Gallo, i romboedri impilati della Colonna senza fine, gli slanci sperticati degli Uccelli, i piedistalli assemblati che avranno un’ascendenza sulla Minimal Art americana. Poi le materie, direttamente intagliate: dalle fibre del legno alle venature del marmo, dalla pietra sgrossata al bronzo opaco, lucidato al punto da riflettere (e confondersi con) lo spazio circostante. Infine i luoghi: il parco simbolico di Tirgu-Jiu in Romania (precursore della scultura ambientale), con la Porta del Bacio, la Tavola del Silenzio, una colonna di trenta metri; l’atelier di Impasse Ronsin (ricostruito nel ‘97 davanti al Centre Pompidou), elettrizzato dalla polvere come la grana delle sue foto, luogo eletto di esposizione – a sentire i suoi critici, un cantiere, un tempio, una caverna, un panificio con i forni ancora caldi.
Una parabola creativa che si può leggere come una sfida alla scultura: può la forma far dimenticare alla materia la sua natura terrestre? può una pietra disincarnata sbattere le ali e librarsi in volo? Nell’ultimo anno di vita Brancusi, fissando il globo di vetro appeso sopra il letto del suo atelier, disse: «Scopro mondi dall’altra parte del mondo» – una visione senza fine.
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