Categorie: Libri ed editoria

READING ROOM

di - 15 Febbraio 2016
Questo ultimo libro di Mario Perniola sembra ambire a diventare un aggiornato punto di riferimento per comprendere l’attualità dell’arte. Non rinuncia alla tentazione di battezzarne con una nuova sigla gli ultimi esiti: la svolta fringe. Il libro è scritto con una chiarezza inusitata per lo stesso filosofo, così come la brevità essenziale, ne fanno un testo agile, di immediata comprensione. L’analisi accurata e brillante della situazione attuale dell’arte ne dà un quadro progressivamente più intricato e contraddittorio, con punte in cui Perniola non riesce a nascondere alcuni tratti ironici. Le conseguenze sono quelle di una serie reiterata di paradossi, che per via della coerente consequenzialità della descrizione, assume un carattere comico; come sono a tratti comiche gli esiti , che l’autore afferma come necessari, del processo di trasformazione dell’arte in atto. Ad esempio, l’idea che una volta delegittimati i critici d’arte, saranno gli psicoterapeuti a prenderne il posto, perché in grado di distinguere l’opera di un artista da quella di un folle. Ma della sottile comicità del libro si ha già sentore dalla copertina: L’arte espansa: «…Qualunque cosa può essere trasformata in arte, anche senza che il suo autore ne sappia nulla…»
L’analisi comincia mettendo in evidenza lo “scoppio” della bolla speculativa creata dal sistema dell’arte contemporanea, di cui molti altri libri rendono conto come ad esempio Lo squalo da dodici milioni di dollari di Donald Thompson, o Lo Sboom di Adriana Polveroni. Dagli anni cinquanta la costruzione del sistema dell’arte ad opera di operatori e galleristi come Leo Castelli, ha costituito una elite egemone  che arbitrariamente decide cosa sia o non sia arte. Ma negli ultimi decenni il senso dell’arte passa progressivamente per una “destabilizzazione” di tale mondo che avviene su più piani. Il primo esaminato dall’autore è l’operazione della Saatchi Gallery di Londra che, all’insegna del neoliberismo, nel 2006 aprì una sezione on linee dove chiunque poteva inserire una propria pagina web, ed assumere una visibilità mondiale. 60mila furono gli artisti che aderirono all’iniziativa. Ma quando costoro cominciarono a premere per passare dalla galleria virtuale a quella reale si posero problemi seri. Fu istituita una commissione di cento critici internazionali che selezionavano artisti ed opere. Perniola vede seguire all’inflazione populista degli artisti (tutti sono artisti) l’inflazione dei critici che devono selezionare un vastissimo numero di artisti accettabili dal mercato.

Ma la destabilizzazione del mondo dell’arte assume una forma radicale con la Biennale di Venezia del 2013 di Massimiliano Gioni, intitolata «Il Palazzo enciclopedico». Anche qui si cerca una catalogazione il più ampia possibile, esponendo a guisa di enciclopedia 157 artisti che figurano come «articoli» enciclopedici. Il criterio è lontano da quello tradizionale del mondo dell’arte, assume infatti caratteristiche più vaste che vertono su fenomeni, storie e argomenti che sono indipendenti dagli «articoli» esposti. Il criterio, sostiene Perniola, somiglia a quello utilizzato da Wikipedia per attribuire interesse enciclopedico ad autore o argomento. Quello adottato da Gioni prende a modello i criteri selettivi per il Palazzo enciclopedico di Martino Auriti (1891-1980) un modellino architettonico per la costruzione di un gigantesco palazzo, mai realizzato, che avrebbe dovuto ospitare tutte le conquiste dell’umanità, dalla ruota al satellite.
Tutto ciò destabilizza ogni criterio precedente con cui identificare ciò che è arte, in quanto proviene da un criterio, quello di Auriti, estraneo all’arte e alla critica d’arte. Il criterio enciclopedico si pone trasversalmente tra ciò che è riconosciuto nei canoni ufficiali e ciò che non lo è, affiancando ad artisti famosi opere di dilettanti o oggetti totalmente estranei al concetto stesso di arte. Dal Libro rosso di Jung, agli psicopatici de “L’arte dei folli” dei primi del Novecento, passando per quegli artisti che hanno rifiutato il mondo dell’arte e la figura dell’artista, fino agli ingenui dalle stranezze soggettive irripetibili, e a casette giocattolo trovate nei sacchi dell’immondizia, che restaurate sono esposte come arte senza che l’autore ne sia a conoscenza. In questa “marginalità” Perniola vede una svolta radicale, “la svolta fringe”, cioè la “frangia”, ovvero l’arte sfrangiata dei margini, che sembra diventare rilevante il momento che ogni canone ufficiale viene messo in discussione. Sembra cioè che il nuovo criterio debba essere una integrazione a vasto raggio che rende labili i confini tra ciò che è arte e ciò che non lo è.

Insomma, tutto secondo questa ottica potrebbe essere considerato arte, e a questo proposito Perniola pone al centro della questione il criterio con cui si compie tale trasfigurazione: «Chi ha legittimità e l’autorevolezza per operare questa metamorfosi?» Per definire questo processo l’autore conia il neologismo “artistizzazione”. Altresì sottolinea i pericoli di questo nuovissimo orizzonte, ma anche le grandi opportunità dove le opere d’arte non basteranno più a se stesse, ma occorreranno una serie di dati esterni come corredo che ne garantisca legittimità e autorevolezza.
Ma alla “svolta fringe” Perniola rileva una immediata reazione del mondo dell’arte con la Biennale del 2015 di Okwui Enwezor, che viceversa pone come criterio di legittimazione degli artisti la loro carriera accademica, il curriculum, rigorosamente all’interno del sistema dell’arte e delle istituzioni. Qui il tratto ironico di Perniola è più che evidente, così come il passaggio comico finale dove la lettura ininterrotta del capitale di Marx di questa ultima biennale, si costituisce come rituale religioso in un paradosso esilarante in quanto proprio Marx considerava la religione come “l’oppio dei popoli”.
Perniola, pur evidenziando i paradossi che delegittimano l’arte contemporanea e il suo sistema, sembra tuttavia pensare che se ci sarà un futuro per l’arte sarà sempre all’insegna del medesimo piano intellettuale che ha preso il sopravvento negli anni Cinquanta con l’arte contemporanea, quasi sia l’unico possibile, al quale attribuisce erroneamente anche il fondamento della arte moderna. Ciò si deduce dal fatto che l’autore cita come primo esempio tra le avanguardie storiche dell’arte moderna il Dadaismo, che invece è un movimento anomalo dal quale nascerà l’arte contemporanea. L’arte moderna, a partire da Cézanne, si fondava su una pars costruens molto più solida, legata all’istinto estetico: la riscoperta della tensione astratta dell’immagine, quella bellezza “musicale” (contrapposta alla bellezza naturalistica) che il Dadaismo rifiutava come (sono parole di Duchamp) “droga artistica”, “schiavitù del retinico” o “carnevale dell’estetismo”. Si tratta dunque di due paradigmi diversi e contrapposti.

La “svolta fringe” non è quindi un reale cambio di paradigma, come asserisce Perniola, ma è piuttosto l’ultima frangia caotica di dissoluzione dell’arte contemporanea, che porta alla progressiva delegittimazione proprio di quel criterio con cui da metà del novecento si è interpretata e legittimata l’arte. In un certo senso queste premesse erano già in Hegel (“La morte dell’arte”), che sosteneva che nell’età della conoscenza razionale l’arte perde la sua funzione. Ma forse non immaginava come, per riuscire a rimanere nell’attualità, l’arte potesse assumere quello stesso paradigma razionale che l’avrebbe scalzata, concettualizzandosi. Ma i nodi arrivano al pettine e appare sempre più evidente come, abbandonando l’istinto estetico del bello, l’intellettualismo alla lunga influisce sull’arte con le stesse caratteristiche neoplastiche di una malattia mortale come il tumore, ed è singolare come la descrizione di Perniola del proliferare incontrollabile dell’arte di oggi somigli proprio al proliferare incontrollato delle metastasi.
Con la destabilizzazione dell’arte contemporanea, al contrario di quanto sostiene Perniola, c’è da aspettarsi un reale cambio di paradigma, già annunciato da Nietzsche quando diceva che i nuovi valori sorgono da sé quando sarà abolito il “mondo vero”, cioè quando sarà scalzata la sovrastruttura di apriori concettuali con cui si pretende di anticipare la realtà e l’arte. Ovvero, forse c’è da aspettarsi una lenta ripresa di coltivazione e affinamento della percezione del bello, che porterà spontaneamente a individuare nuovi canoni e un nuovo fondamento estetico.

Nato a Milano nel 1956 è poeta, pittore e saggista. Dal 1987 espone i suoi dipinti in mostre personali e collettive in gallerie private e in spazi pubblici, in Italia e all’estero. Presente alla 54° edizione della Biennale di Venezia (Padiglione Italia). Raccolte di poesia: La città interna, Primo quaderno Italiano, Poesia contemporanea, Guerini e Associati 1991; Progresso nelle nostre voci, Lo Specchio, Mondadori 1998; La forma innocente, La Collana, Stampa 2001; Condominio delle sorprese, Lo Specchio, Mondadori 2008 (Premio Rhegium Julii, Premio Laurentum); Chilometri da casa, Lo Specchio, Mondadori 2017. È presente nell’antologia Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Mondadori 1996-2004. E’ tradotto in albanese e in spagnolo. Narrativa: Il dodicesimo mese, Moretti e Vitali 2016. Saggi: Figura Solare. Un rinnovamento radicale dell’arte, inizio di un’epoca dell’essere, Marietti 2011 (Pref. M. Mazzocut-mis); Arte come rimedio. L’armonizzazione delle facoltà umane nei processi espressivi, Moretti e Vitali 2013: La “solarità” nella pittura da Hopper alle nuove generazioni, Pref. E. Franzini, Mimesis 2016, (Secondo classificato Saggistica, Premio Scriviamo insieme 2016, Roma); Arte classica moderna e contemporanea. Un confronto attraverso le immagini, Mimesis 2017.

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