Giampaolo Frezza, Palermo Spasima, Rubbettino, Soveria Mannelli 2025. In copertina uno scatto di Fabio Sgroi
Lo scatto scelto per la copertina, firmato da Fabio Sgroi, non è solo una fotografia: è una sintesi visiva che anticipa l’intero libro. In apparenza è una festa: studium. Palermo esplode ai Quattro Canti, epicentro scenografico della città barocca. Dai cannoni non escono proiettili, ma coriandoli: segni effimeri di una gioia carnascialesca, simulacro di festa perpetua. Ma basta osservare un dettaglio, ed ecco il punctum: quell’uomo in maglietta bianca che, colto all’improvviso dal fragore dell’esplosione, si volta di scatto, o la donna al suo fianco dallo sguardo un po’ torvo. I loro volti ci catturano e ci feriscono, ci chiamano a una verità più profonda. Così funziona anche il libro: il lettore si muove in bilico tra studium e punctum, tra il documento e la lacerazione, tra la volontà di comprendere e l’impossibilità di farlo del tutto. Palermo, in queste pagine, appare come una città eternamente in festa, ma una festa che spesso si interrompe all’improvviso, in un movimento che non sembra avere inizio né fine, che si autoalimenta come fuoco sotto la cenere. Una festa che è anche resistenza, istinto, disordine vitale. Ogni città barocca in fondo è una scena, ma Palermo sa essere in più un ibrido di arroganza, malinconia e sfacciataggine. Odora di mescolanze sconosciute, si impone con una bellezza che rifiuta il consenso. È una città che, come nei resoconti dei viaggiatori del passato, resta irriducibile, sempre in eccesso.
La Chiesa di Santa Caterina è descritta come «un’esplosione di Barocco», la Cattedrale come «bellezza assoluta nel giorno più caldo dell’anno», e gli oggetti abbandonati di cui Palermo abbonda – immagine ricorrente – sono «perennemente ripudiati». Tutto, come i birilli colorati del Foro Italico, ispirati al profilo di Eleonora d’Aragona scolpita da Laurana, diventa simbolo della città. Palermo spasima perché un tempo Raffaello dipinse, per un committente palermitano, un’Andata al Calvario in cui la Vergine dolente diede il nome al quadro: Spasimo. La chiesa dello Spasimo è lì, senza tetto, nello spasimo generale della città che si reitera nella voragine carnale del mercato di Ballarò, e in un modo più ruvido che nel quadro oggi al Prado. Fanno così la loro miracolosa apparizione i muri di Ballarò: Ora ti passa di Igor Scalisi Palminteri, Fides di Andrea Buglisi, Faces are place di Alessandro Bazan, una sintesi per immagini della città e dei suoi temi sotterranei che precede lo stordimento della Chiesa di Casa Professa.
Di immagine in personaggio ci si fa l’idea che per capire Palermo forse servono occhi da antropologo. I suoi abitanti spesso appaiono come scarti ai margini di un mondo inutilmente produttivo: le donne trasmettono sempre un senso «di torti subiti e di angherie di ogni genere», spesso hanno troppi figli, sono leopardate, eccentriche, e tuttavia cariche di luce. Altri vivono immersi nella speranza di un incontro, come in un anticipo di paradiso. Ma il libro non è né una guida né un diario né un saggio. È un atlante emozionale, un mosaico instabile in cui la scrittura diventa uno strumento urticante. L’autore, giurista e docente universitario, padroneggia un lessico preciso, nitido, referenziale – come si conviene a chi ha fatto della parola il proprio mestiere. Ma quando questa parola si posa su Palermo, si corrompe, si infiamma, perde la compostezza e si lascia attraversare da un senso d’urgenza. Gli accapo si fanno sempre più frequenti. La lucidità diventa ustione. È come se l’autore tentasse di toccare Palermo con la punta delle dita, e ne ricavasse ogni volta una scossa. Non c’è difesa, non c’è ironia salvifica: a ben vedere c’è solo esposizione.
Pagina dopo pagina la città prende forma, ma non si lascia mai catturare del tutto. È un atlante in movimento, che si sottrae mentre lo si consulta. I viaggiatori che un tempo approdavano a Palermo con l’intenzione di raccontarla finivano spesso per interrompere i loro appunti in modo un po’ brusco. Cos’è successo? Perché il taccuino si ferma? In questo libro accade l’opposto: l’autore non riparte, resta. Ma anche lui, alla fine, sembra dileguarsi, ma stavolta nella materia incandescente della città, quasi a suggerire l’inizio di una narrazione non detta.
Solo chi ha davvero vissuto Palermo può scrivere così. Chi l’ha abitata nei suoi squilibri, nei suoi paradossi, nelle sue contraddizioni incandescenti. E forse la domanda finale – che fine ha fatto l’autore? – non ha più importanza. Perché è la città ad aver preso la parola, e lo ha fatto a modo suo: con voce incontenibile e disturbante.
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