Aboudia, Untitled, 2022. Courtesy: Phillips
Un confronto, uno schianto, ma anche un affrancamento, una sfida, la consapevolezza dei propri tratti unici e peculiari. La piattaforma di mostre e di vendita Phillips X presenta Different Throws of Dreams: Aboudia x Dubuffet, una lente di ingrandimento su 10 dipinti dell’artista ivoriano Aboudia (alias Abdoulaye Diarrassouba) messi a confronto con le opere di Jean Dubuffet. In altre parole: arte ultra contemporanea che dialoga senza indugio con la ricerca di ormai mezzo secolo fa. Dove: nelle gallerie londinesi di Phillips, in Berkeley Square, pronti per le private sales. Quando: nel pieno dell’estate, dal 10 al 31 agosto. Ed è una buona occasione per puntare lo sguardo sulla vernice fresca, ovviamente, sul suo mercato, di cui la maison si conferma, anno dopo anno, regina indiscussa e abilissima promotrice.
«Con il loro squisito modo di riflettere la realtà», dice Maura Marvão, International Specialist 20th Century & Contemporary art di Phillips, Portugal & Spain, «i dipinti di Aboudia fanno appello alla nostra empatia e alla nostra capacità di vedere e trasformare la realtà prendendo ispirazione dalla visione dei bambini – dalle loro voci e dalle loro esperienze». E aggiunge: «Il lavoro di Aboudia è molto ricercato. Oltre a far parte di rinomate collezioni su scala globale, il suo lavoro è stato paragonato a quello di artisti celebri, tra cui quello di Jean Dubuffet».
Un’occhiata ad Artprice e la conferma arriva rapida e decisa: a partire dal suo record d’asta, Untitled (2018), che esattamente un mese fa, da Christie’s Londra, ha tagliato il traguardo di £ 504.000 (su una stima di £ 40.000 – 60.000). E poi ancora Haut les mains (2020), che sempre da Christie’s, all’inizio dell’anno, passava di mano per £ 378.000 – mentre Take me II (2022), da Phillips, trovava a giugno un acquirente per HK$ 2.520.000. Un fatturato 2019 di $ 570.720, $ 7.8 milioni raggiunti nel 2021 e superati di nuovo, con $ 8.8 milioni soltanto nel primo semestre 2022; il sostegno di Jean Pigozzi e Charles Saatchi, con esposizioni dedicate, puntuali; la partecipazione alle maggiori fiere internazionali, da Art Basel a Basilea a Miami, ma anche 1:54 a Londra, New York e Marrakech, tutta incentrata sull’arte africana. «Questa mostra ci permette di capire cosa hanno in comune i due artisti», ribadisce l’esperta, «cosa li distingue e cosa li rende unici».
Ed eccola dunque l’unicità di Aboudia (Abengourou, 1983), che torna sul tema dell’infanzia per indagare la guerra e la povertà. C’è un attaccamento alle origini profondo, viscerale, tra le costanti del suo lavoro, lo sguardo vivo, sempre inchiodato sulle vicissitudini di Abidjan e della Costa d’Avorio – anche quando è assediata dai proiettili, pericolosa e invivibile, e allora non resta che rifugiarsi in cantina, e poi trasferire su tela quello che ha visto. Ci sono i materiali trovati per strada a raccontare le sue storie, a tessere la narrazione di quei destini incrociati: a partire dai rifiuti, dal ferro ondulato – modellato chissà dove – e ancora i giornali, le riviste, i libri di scuola, il carboncino, per una resa a strati di materia e di memoria. Un mix originale tra i graffiti urbani di Basquiat e le sculture in legno dell’Africa occidentale, dice la critica. E poi ovviamente una rielaborazione tutta nuova – la chiama Nouchi l’artista, come lo slang della Costa d’Avorio, una fusione irregolare, colloquiale, familiare, tra vocabolario francese e linguaggio ivoriano.
Cambio di scenario, si passa – o meglio: ci si scontra senza preavviso – con l’Art brut di Jean Dubuffet (Le Havre, 1901 – Parigi, 1985). Occhi grandi, bocche carnose, gesti marcati, calcati, materici, incisivi. Una forma di espressione spontanea la sua, ingenua – a tratti infantile – lontana da definizioni, da qualsiasi condizionamento culturale. Arte brutale, grezza, e tanto deve bastare. Un’arte brutale incoronata con un record assoluto da $ 24.8 milioni (Christie’s, 2015), mica male. «Utilizzando materiali trovati in modo non ortodosso e stratificati con pittura e carta, l’opera di Dubuffet ripercorre la sua evoluzione personale durante i significativi cambiamenti culturali e artistici del secolo scorso», spiegano da Phillips. «Non c’era gerarchia nel suo mondo, un mondo in cui le convenzioni venivano infrante e i soggetti storicamente sottorappresentati e trascurati venivano portati alla ribalta». Ancora: «Dimostrando che la creatività può fiorire anche nei luoghi più improbabili, Dubuffet ha creato un proprio linguaggio d’arte deliberatamente brutto, crudo». Eppure immediato, cruciale.
É chiara l’assonanza, i riflettori puntati sul lato più squallido, fragile, vulnerabile della vita cosmopolita; le caricature grottesche che sfidano gli standard culturali; ancora, l’uso di oggetti di scarto della vita quotidiana. Forti, a confronto, nella mostra di Phillips X. Ognuno con le proprie spigolose unicità.
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