All’inizio degli anni novanta la scena artistica contemporanea italiana vive una stagione molto fertile offrendo un trampolino ad una giovane generazione di menti che, dieci anni dopo, in diverse direzioni, avrebbe stabilito le tracce della nuova creatività italiana.
Nel 1991 si impone in nome del romano Paolo Canevari, che con le sue creazioni realizzate modellando, piegando e congiungendo pezzi di copertoni, le camere d’aria, offre al pubblico la propria riflessione sul significato della scultura.
L’attuale mostra Colosso si risolve in un’unica ma complessa installazione composta da piccoli anfiteatri in gomma, tanti piccoli neri colossei. L’esposizione pare efficacemente definire la concezione della scultura per Canevari. L’artista ha infatti sempre evitato la scultura monumentale e celebrativa, e proprio per questo la sua materia di elezione è vile e prosaica. I suoi volumi neri e pesanti, che evocano odore d’asfalto, possono diventare mazzi di rose, figure umane, o – come in questo caso – monumenti cui viene tolta la loro peculiare “monumentalità”.
In questa mostra l’oggetto di indagine è la memoria storica collettiva, incarnata nel simbolo ripetuto della città caput mundi. Il metaforico ritratto di una Roma grandiosa ma caotica si delinea chiaro e immediato, senza ricorrere a particolari sforzi di astrazione.
Durante il vernissage, Canevari ha completato la propria installazione comparendo egli stesso nelle vesti di un Atlante postmoderno, portando sulle spalle – senza trascurare la posa classica richiesta dal ruolo – uno dei tanti piccoli colossei fioriti sul pavimento. Una fotografia che lo ritrae in questa situazione a grandezza naturale, nella parete frontale della sala, fornisce imponente documentazione della performance.
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