La corsa per lo sviluppo della società occidentale-tecnologica
sembra inversamente proporzionale all’idea di conservazione di una memoria
storica collettiva. Parliamo di una vera e propria amnesia per il passato,
diffusa tra nuove e vecchie generazioni, che rendono passatempo e professione
lo stare al passo coi tempi, con relativo panico e corsa ai ripari dei più
accorti, poiché la memoria storica è il fondamento su cui poggia il presente.
Essa ha sempre due facce, celebra imprese ed è monito per le
future generazioni. Tra monumenti, altari e targhe, non c’è nulla di
maggiormente eloquente delle tracce che la guerra imprime sul corpo, sulle
case, sulle città di chi le vive in prima persona. E, in molti casi, mantenere
visibili i segni della guerra, che con il tempo acquistano il valore di
monumento e simbolo, è una scelta collettiva.
Un’esperienza si può dire opposta è stata invece affrontata da
Stefano
Lupatini (Brescia,
1976; vive a Milano) quando si è recato a Sarajevo nel 2008 per partecipare come
volontario alla campagna di bonifica contro le mine antiuomo. Qui non si trovano
monumenti, ma solo ferite aperte che squarciano muri e strade; segni talmente
visibili da stupire l’artista per la loro invisibilità agli occhi degli
abitanti della città. Si tratta di dolorosi solchi impressi da proiettili e
granate sui muri, cicatrici ancora fumanti d’una guerra che sembra imporsi,
strabordante, più che nella memoria, nell’attualità collettiva.
L’artista spiega che la città non ha ricevuto sovvenzioni per il
restauro, quindi i cittadini convivono con le tracce vive del loro passato;
tracce inavvertite, che ormai fanno parte della quotidianità, dell’architettura
del luogo. Dopo dodici anni dalla fine della guerra non è ancora permesso di voltar
pagina e ciò si manifesta chiaramente nell’impossibilità di gestire questi
strascichi, rendendoli memoria e non più consuetudine. La guerra è finita
lasciando anche un corollario di segni invisibili, meschini come le mine
nascoste, pronte ancora a riportare sotto gli occhi della gente il terrore.
Come suggerito all’artista da un bosniaco sul campo,
“le mine
sono un riflesso della guerra”, e quest’eco sfumata continua a diffondersi tra le mura della
città, nell’insolito ripetersi dei buchi sul cemento che ossessivamente
Lupatini riprende con l’obiettivo fotografico.
In mostra anche il video
Anna (2009), presentato quest’anno alla Biennale di Mosca, che
vede emergere dall’assenza di segnale del monitor brevi frasi, un estratto della
vita della giornalista russa Anna Politkovskaja. Una icona di libertà e
coerenza, la cui storia emerge come traccia dal caos informe dell’effetto “neve”
del monitor, così come dovrebbe sopravvivere il ricordo del suo impegno
dall’azione di cancellazione che il tempo ha sulla memoria.