Non sono astratti, eppure non sono figurativi, i lavori di Domenico Bianchi (Sgurgola, Frosinone, 1955; vive a Roma). Sono linee che nascono e muoiono, con materiali poveri. Sono sinuosi giochi geometrici che ricordano simboli totemici, figure-non figure che si rincorrono su grandi pannelli in fibra di vetro. La galleria Stein presenta una serie di diciotto lavori di identiche dimensioni dell’artista romano, figlio –o fratello minore- della grande stagione dell’Arte Povera italiana. È infatti dall’incontro, negli anni Settanta, con Mario e Marisa Merz, o con Jannis Kounellis, che Bianchi eredita l’amore per quei materiali che appartengono alla vita quotidiana: il legno, il metallo, la cera, la fibra di vetro. E tuttavia non si limita a presentarli nella loro realtà grezza, immediata, priva di processo rappresentativo (come poteva essere lo specchio per Pistoletto, o il neon per Merz): Bianchi mescola l’innovativa reazione alla pop art proposta dai poveristi con la tradizione della pittura da cavalletto. Sottopone i materiali “poveri” di cui si serve ad una raffinazione che li porta molto vicino alla figurazione, eppure non la raggiunge mai.
Nei lavori in mostra l’artista traccia con la cera e il palladio armoniose linee circolari a spirale, che vanno guardate nel loro insieme, da lontano, sulla parete completamente bianca. È l’artista stesso ad affermare, in un’intervista di qualche tempo fa, che “l’immagine nel suo valore assoluto si pone al di là di ogni dicotomia tra astrazione e figurazione”. O, ancora, che “la libertà immaginativa è fuori dal canone normativo e comunque sfugge ad ogni contrapposizione tra l’astrazione e la figurazione, fra il reale e la sua simulazione.”
Si può non essere completamente d’accordo in senso assoluto, ma non si può non esserlo di fronte alle sue opere. La circolarità della linea rimanda all’eterno ritorno, alla continua ricerca dell’infinito, contrapposta alla linea retta, che pure -secondo Bianchi- è sempre e comunque inclusa come orizzonte nell’idea del circolo. Ci si avvicina alla figurazione, ma non la si raggiunge, perché nulla in queste opere è geometria perfetta e matematica. È solo un’illusione di perfezione, che però necessita dell’immaginazione e si serve ampiamente del colore. Ciascuna tavola è una bicromia tra la spirale e lo sfondo. Le due tonalità non si incontrano mai: il giallo, il bianco, l’argento, il bordeaux, il blu. Bianchi ricerca sempre tonalità pure, evitando le commistioni e limitandosi a sovrapposizioni. L’effetto generale è quello di un cielo psichedelico di strani pianeti, simboli esoterici venuti da un altro mondo, armonie geometriche più visionarie che visibili. E sullo sfondo di tutto ciò il ricordo dei grandi Anni Settanta.
barbara meneghel
mostra visitata il 17 gennaio 2006
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