Quando Paul Gauguin giunse per la prima volta a Tahiti, lasciandosi alle spalle l’Occidente e la sua Parigi, si innamorò immediatamente delle donne locali. Del loro esotismo sensuale, della loro bellezza primordiale, della perfezione naturale delle loro forme. E ne fece il soggetto privilegiato per la sua produzione artistica matura. Non è difficile ricordarsi delle donne tahitiane di Gauguin, guardando i ritratti fotografici di Ousmane Ndiaye Dago (Bambey, Senegal, 1951). La stessa istintualità sinuosa, lo stesso gusto per le forme corporee, lo stesso erotismo sublimato in mistero. E, soprattutto, la stessa osmosi culturale tra l’Occidente e una diversa tradizione etnica. Ma a tutto questo, nell’artista senegalese contemporaneo, si aggiunge la ritualità della terra, della materia che avvolge il corpo, del volto nascosto da secoli di tradizione religiosa musulmana.
Le stampe fotografiche esposte alla Bel Art Gallery di Milano raccontano di donne senza volto (sempre nascosto da parrucche che sciolgono i capelli, da parei annodati davanti agli occhi, o più semplicemente da tagli sapienti dell’obiettivo) che -letteralmente- si uniscono alla terra, in una sorta di amplesso con la natura: i corpi nudi vengono completamente ricoperti di argilla e fango, incrostati di materia, avvolti nell’elemento più primordiale per raccontare un mito ancestrale, quello della Madre Terra. Feconda come feconda è la donna, destinata alla procreazione, alla fertilità. Alla Vita. Ma la vita è anche danza, erotismo, carnalità, sensualità. E allora dalle mitologie primitive delle divinità africane o cicladiche si passa a ricordare la letteratura classica, le Baccanti euripidee. Il menadismo sensuale che solo la perfezione della tragedia greca ha saputo raccontare, scremandolo da qualunque risvolto volgare o eccessivo. Mantenendolo piuttosto nel solco elegante della statuaria greca, anch’essa tutta presente nelle immagini di Dago.
I corpi delle modelle senegalesi sono i corpi delle divinità classiche: le stesse forme piene (lontane, a ben guardare, dall’attuale concezione della bellezza occidentale), le stesse posture di una grazia assoluta, lo stesso erotismo desiderabile. Ma sono anche i corpi delle modelle delle Anthropomètries che Ives Klein colorava di blu oltremare, come è stato giustamente osservato. E ancora, sono i corpi di donne che interpretano -o subiscono- una tradizione religiosa e culturale come quella islamica, che come si diceva nega i loro occhi. Ruba loro l’identità. E per assurdo focalizza ulteriormente l’attenzione sulla sensualità dei loro fianchi, su cui scivolano collane colorate simbolo di erotismo.
Il fascino dell’arte di Ousmane Dago sta tutto qui. Nella densità dei richiami, nell’estemporaneità dei riferimenti, nell’eclettismo culturale. Nella capacità di restituire un’idea di femminilità che si mantiene perfettamente in bilico tra sacro e profano, tra spirito e carne. Tra anima e terra.
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