Ci si tolga dalla testa l’idea di visitare una normale mostra d’arte recandosi alla Fondazione Marconi per
Enrico Baj (Milano, 1924 – Vergiate, Varese, 2003). Preferibilmente la si visiti in un orario in cui l’affluenza di pubblico è limitata e si tenda bene l’orecchio: i mobili parlano (e sparlano)!
Apparentemente si potrebbe definire una mostra statica e ordinata, con opere bidimensionali a muro. A dar vitalità all’esposizione è innanzitutto la vivacità dei colori e dei materiali utilizzati: collage di stoffe floreali e impiallacciature, intarsi e passamanerie, che ricreano mobili e mobiletti, consolle e commode decorati in vari stili, ognuno con una propria personalità, ma tutti rigorosamente in due dimensioni. E ciò non è da sottovalutare.
Infatti, i mobili sono oggetti funzionali, ricercati nel design, a volte antichi e costosi, ma pur sempre “
al servizio dell’uomo”, a cui è richiesta bellezza e praticità. Togliere la tridimensionalità, alleggerirli del loro peso (concreto e funzionale), farli levitare significa conferirgli un nuovo luogo di senso, trovandogli una funzione nascosta.
Spogliati dalla sudditanza all’uomo, poiché privi della profondità fisica, elevati a opera d’arte, ora impongono il loro esclusivo valore estetico, lasciandosi osservare. Ma il genio di Baj si manifesta nella straordinaria capacità di conferire anima al materiale inerme che, assemblato, prende vita grazie alla magia dell’artista-creatore, come un organismo mosso dal tocco divino.
È dunque consigliabile vedere la mostra in completo silenzio, perché è possibile cogliere quella tensione latente, quel trattenersi forzato dei mobili da un rumoroso, ironico chiacchiericcio, che sembra impazzare appena voltate le spalle.
Al piano superiore, ecco lo scoppio fragoroso delle geometrie controllate:
Composizione (1962) è l’opera caotica di transito verso una completa antropomorfizzazione. Erano già presenti le tracce nei mobili, ma ora questi omini in legno dall’aspetto sintetico e buffo sono liberi di danzare, gioiosi esseri postumani (
Breton trova in Baj “
malgré tout aussi celui de l’allégresse”) in linea con i vari
Generali,
Generalesse e
Specchiere di cui Germano Celant compie una molteplice lettura: da un lato vedendo le opere come critica all’azione degradante della società industriale e consumistica sull’individuo, dall’altro trovandone un’accezione positiva, opposta alla precedente, che crede nella “
forza creativa del sogno industriale”.
E sono molti gli artisti che, fin dagli anni ’20, non hanno avuto timore di sporcarsi mani e fama frugando nelle discariche, per elevare rifiuti e scarti nel sacro recinto dell’arte. Frequentemente viene conferito a questo materiale recuperato un aspetto giocosamente antropomorfo: si pensi ai personaggi in latta laccata di
Depero, alle macchine giocattolo di
Calder, alle sculture meccanicamente animate di
Tinguely, agli assemblaggi di
Pascali.
Oltre alla lettura di Celant (e potendo accedere alle opere sopra indicate), non dovrebbe venir meno il lato grottesco e ironico con cui gli artisti (tra cui Baj) hanno saputo intendere e interpretare l’evoluzione sociale ed economica del Novecento. Di cui i rifiuti sono parte integrante.