La pittura non è morta né mai morirà, ma rimane latente nella storia, sotto forma di idea, in attesa di una nuova fioritura. Sembra esserne convinto Lawrence Carroll (Melbourne, Australia, 1954), nome solido del panorama artistico contemporaneo che ha conquistato anche il collezionista italiano Giuseppe Panza di Biumo.
Immaginiamolo così, intento a lavorare lentamente nello studio veneziano, il luogo d’adozione, mentre consuma la sua passione in una gestualità misurata che trasforma elementi di scarto in qualcos’altro. In arte. In pittura, o forse in scultura. Pur nella sua compostezza rinascimentale l’opera non si contiene: invade l’ambiente circostante, pareti e pavimento, alterandolo secondo un concetto installativo, lo rende dinamico, costringendoti a girarci attorno, ad avvicinarti per “guardare dentro”, per scoprire le suture che uniscono stralci di tela e il pigmento che si lascia contaminare. Monumentale eppure eterea. Colori lievi e lividi come il crema o il ceruleo pallido che si stemperano nel bianco. Che si sporcano di magenta o di schizzi color fumo. Tratto che lo annovera tra quei pittori che hanno fatto del monocromo la ricerca di una vita.
La sensazione complessiva quando si entra alla Galleria Cardi, costellata sui due piani e in ogni stanza della copiosa produzione di Carroll, interamente frutto del lavoro dell’ultimo anno, è quella di una morbida luminosità e di uno spazio interrotto da porte del destino, strani sarcofagi, botole magiche che rimandano a qualcosa di nascosto e intimo come un sesso femminile. I singoli pezzi spingono ad avvicinarsi per scrutare il legno, sentire la pennellata e scoprire che dietro le lastre di vetro trattenute da chiodi ci sono delle coperte ripiegate e a loro volta verniciate.
È una sorpresa, al piano superiore, l’edera che emerge da una tinteggiatura grossolana e che richiama il piccolo quadro in cui un bouquet di rose è cristallizzato sotto una crosta di smalto.
Con Jannis Kounnellis, Carroll condivide la poetica dell’oggetto ritrovato ma, per quanto diverso stilisticamente, il principale referente è Jackson Pollock a cui lo accomuna l’elemento di manualità trasferito sulla tela come sintomo di un’umanità zuppa di emozione.
Con questa mostra, Carroll dimostra di proseguire una ricerca linguistica che riassume in molti aspetti gli sviluppi dell’arte del Novecento. Tra cui, in primis, la centralità della luce e una concezione dello spazio che ha un debito con Lucio Fontana. In alcuni colori di recente acquisizione, come in certi rosa, o come negli ocra, ci sono probabilmente i tramonti lagunari che hanno influenzato il suo vocabolario coloristico. Mentre dal canto loro, gli oggetti di riciclo raccontano di desolazione e miseria, ma soprattutto di precarietà e memoria. Di un tempo che passa sopra le cose e le trasforma. E ci parlano, in definitiva, di una vita vissuta e lontana.
martina gretel
mostra visitata il 15 maggio 2007
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