“Ho cominciato verso l’età di tre anni… Prendevo piacere ad allineare delle cose che si assomigliavano, a fare delle serie. Ogni serie esprimeva una progressione, delle variazioni nel colore o semplicemente delle inversioni… Non ho mai praticato il disegno infantile abituale. Preferivo già le serie di immagini”. Con queste parole,
Victor Vasarely (Pécs, Ungheria, 1906 – Parigi, 1997) ripercorre la sua infanzia, cercando di restituirci -e se ne accorge anche Andrea Busto nel saggio in catalogo- un’immagine della propria carriera artistica
“lineare e contigua” alle opere prodotte in seguito. Una immagine che non lascia spazio ai tentennamenti della giovinezza né alla puerilità, all’inconsapevolezza dei giochi infantili.
Non è questa però l’impressione che si ricava valutando l’unico dipinto giovanile a noi rimasto, dove la dimensione figurativa emerge banalmente dalla più consumata tradizione pittorica di fine Ottocento. E nemmeno passando in rassegna le prime opere esposte in mostra, tutte riferibili agli anni ‘30 e ‘40, quando l’artista si trasferisce definitivamente dall’Ungheria, patria d’origine, alla Francia, patria adottiva.
Si dichiarano invece immediatamente i riferimenti culturali del giovane Vasarely, estremamente aperto alle influenze delle più disparate correnti artistiche. Omaggi dichiarati alle esperienze razionaliste della Bauhaus, a
Malevic e
Mondrian. Al di là di un’interpretazione socialista dell’arte, che scioglie la creatività soggettiva in produttività industriale, seriale e aniconica, Vasarely non rinuncia ad ammiccare all’onirismo surrealista e alla lezione della pittura futurista, come in
L’Atelier (1945),
Le cirque e
Le Manège (1942). Sono molti poi i quadri che avrebbero potuto svelare un artista attento a interpretare
Picasso (
Hermaphrodite, 1944-45) piuttosto che
De Chirico (
Autoportrait, 1942).
Più dell’immagine che Vasarely ricostruisce di sé, rigorosamente ancorata a un ideale perseguito da sempre, piace allora immaginare l’artista che -con l’energia dei trent’anni- valuta percorre e sperimenta tutte le strade, trovando semmai un filo che leghi tutta la sua opera in ciò che lo interessa più di tutto: l’attenzione maniacale per la resa dei materiali e per i giochi di variazione cromatica e illusione ottica, che saranno la base dell’Optical Art, di cui Vasarely può considerarsi l’inventore.
Davanti alle varie versioni delle
Zèbres (1937, 1944, 1950) ci si sente nell’officina dell’artista e si può vedere come prenda forma quella propensione a lasciare che sia l’occhio dello spettatore a completare, a dare senso all’immagine. Nel quadro del 1937, le strisce della zebra si muovono sul piano senza sfondare illusionisticamente lo spazio, rimanendo chiuse all’interno di quel mondo parallelo di contrasti di colori e forme perfette che è il mondo artistico di Vasarely. La zebra del 1950 obbliga invece l’occhio a considerare i volumi virtuali che si vengono a creare oltre la superficie dell’opera, completata dalla percezione dell’osservatore, capace di trasformare un
“movimento illusorio” in
“movimento reale”.
Sono riflessioni di questo tipo a muovere le ricerche degli anni successivi, dove le forme sempre più perfette si animano di un cinetismo che sempre prevede l’inclusione del nostro modo di percepire le forme e le loro variazioni cromatiche. Opere, quelle degli anni ‘60 e ‘70, prodotte in serie applicando sistemi di variazioni che vogliono farsi anonimi. Un’estetica che ha influenzato tanta parte della produzione artistica di quegli anni, ma anche designer e stilisti, da
Paco Rabanne a
Pierre Cardin. E che, nell’epoca dei personal computer, non può non ricordare il dinamismo geometrico di tanti screensaver.