E’ davvero difficile rinchiudere negli angusti spazi di una esposizione, per quanto ampia possa essere, la straordinaria vitalità artistica che contraddistingue la Milano degli anni trenta del Novecento. Ci prova in questi giorni la Provincia di Milano in collaborazione con la Fondazione Antonio Mazzotta, con la mostra Milano anni trenta, a cura di Elena Pontiggia e Nicoletta Colombo.
La prima sala, la più grande, si trasforma così in un ring, dove dalle pareti opposte quasi vengono a scazzottare opere le più diverse; manifesti di dimensioni artistiche spesso in antitesi tra loro.
Il classicismo delle cinque opere monumentali di Sironi presenti in mostra (tra cui la stupenda Composizione con archi e barca del 1936) e di quelle di Achille Funi (tra cui il mitologico Mercurio), fa letteralmente a pugni con il clima carico di tensione lirica che si forma attorno ai lavori degli Italiens de Paris, ovvero quegli artisti italiani che lavorano a Parigi e che negli anni trenta si trasferiscono o soggiornano a Milano: da Giorgio de Chirico, presente insieme al fratello (musicista, letterato e pittore) Alberto Savinio a Massimo Campigli.
Di De Pisis, stabilitosi a Milano alla fine del decennio e figura tanto complessa da meritare in realtà una trattazione a parte, è esposto il Cantiere in costruzione a Milano, 1940, dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino. A dare ancor di più l’impressione di trovarsi in una palestra o nel bel mezzo di una competizione in cui non si risparmiano pugni e sudore, il Riposo degli atleti di Carlo Carrà del 1933: con questi pugilatori seduti nel loro classico grigiore, quasi sfiancati dalle pennellate rosa di un cielo di De Grada, sulla parete affianco, o dalle visioni del realismo magico di Gian Filippo Usellini e Antonio Calderara, che rimbalzano dalla parete di fronte. Fino alla poderosa Eva (1939) di Francesco Messina; che sembra scesa, di malavoglia, dalle pareti della Cappella Brancacci, per venire a trovarsi in mezzo a tutto questo novecentesco trambusto.
La mostra si spinge poi a sondare quella “visionaria ricerca del colore”, nota dominante della lirica post-novecentista. Le piccole stanze del piano superiore sembrano così trasformarsi in provette di laboratorio, in cui si vedono germinare le più svariate ricerche sulla forma e sul colore. Ad aprire le danze è Renato Birolli, con il suo Taxi rosso, vero manifesto del periodo. Ed è il rosso a costruire e dominare anche le figure dei quadri di Aligi Sassu. Figure e colori si fanno più leggeri, lasciano spazio al sogno e alla fantasia, sulla scia delle esperienze dell’astrattismo, che cominciano ad essere assimilate anche nella nostra penisola. Sono infatti scultori come Lucio Fontana, Bruno Munari, Fausto Melotti, Luigi Veronesi e Atanasio Soldati a dar vita al primo astrattismo italiano, raccolto attorno alla Galleria del Milione.
Le ricerche si muovono su più campi e ai nomi degli artisti si mischiano quelli di quei letterati, filosofi e critici che diedero una struttura teorica alle rilevanze estetiche dei “movimenti” nascenti in questo periodo: da Edoardo Persico ad Alfonso Gatto a Carlo Belli (forse il primo a teorizzare, in Italia, un’arte astratta, con un articolo del 1933 pubblicato su Quadrante). Tanti sono i nomi che si susseguono in queste sale, a significare momenti di un attività in comune di artisti che poi, nella maggior parte dei casi, presero strade divergenti. La mostra si chiude con alcune opere dell’esordio del movimento Corrente, nato nel 1938, a cui aderiscono Sassu e Birolli, Bruno Cassinari, Giuseppe Migneco ecc. Anche Ennio Morlotti entrò a far parte del movimento: ed è proprio un suo quadro a chiudere la mostra. Sta lì, con quella data 1941, a dimostrarci come la materia possa farsi natura, vincendola. Affinché chi guarda possa, umanamente, toccarla, viverla.
stefano bruzzese
mostra visitata il 5 gennaio 2005
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