Che il maestro non risparmi i riti scaramantici -lungi da noi il portare jella-, ma in un periodo di scomparse, di ferite al mondo dell’arte, così lancinanti, una riflessione su un’epoca eroica che sta poco a poco dissolvendosi, torna alla mente quasi spontanea. E in questo senso, un ragionamento su Giulio Paolini (Genova, 1940; vive a Torino), non appare mai inopportuno. Così come mai lo sono le sue opere, misurate nella forma, esplosive nel contenuto, quasi a farsi beffe della grazia e dell’eleganza che le caratterizzano. Un abito che non fa il monaco, quello di Paolini, che di certo non si vergogna a nascondere nella sua ricerca un’indole austera e un retaggio coltissimo, che rifiuta con fermezza il “ mito del buon selvaggio” di Jean–Jacques Rousseau per preferirgli l’immagine consapevole dello scienziato o dell’alchimista in cerca della pietra filosofale.
Il congegno espositivo orchestrato dal sodalizio Marconi & Stein, ancora una volta a caccia di Storia, dopo la retrospettiva dedicata ad Uncini, seppur guardando al futuro, si suddivide in due parti. Una prima è dedicata a fornire un percorso con opere che vanno dal 1960 al 2007, del calibro di Idem (3), esposta per la prima volta in un ciclo di mostre cominciato a Torino (Idem (1)), successivamente a Milano alla galleria Toselli (Idem (2)), per concludersi alla Galleria Lucio Amelio (Napoli) nel Gennaio del 1974 (Idem(3)), oppure la musica silenziosa emanata dai leggii dattiloscritti dell’istallazione ambientale Apoteosi di Omero, del 1970.
La seconda, invece, da Stein, propone due lavori nuovi, intitolati Una vita normale e una Doppia Vita. Anche qui, coerente con il suo passato, Paolini riprende il tema che è stato fondamentale in tutta la sua ricerca: l’analisi in chiave concettuale del fare artistico, attraverso lo sviluppo e la destrutturazione dei suoi codici, il ricorso alla citazione, l’ironia che spesso ha avvolto nelle sue opere la figura dell’artista. Cavalletti, frammenti di fotografie, oggetti in prospettiva incisi su teche di plexiglas, tele capovolte, dorature, incrostazioni e gessi rinverdiscono un repertorio che affonda le sue radici nella tradizione più pura, con l’intento non già di rinnegarla, ma di analizzarla con lo sguardo della contemporaneità. L’operazione del maestro registra in maniera non certo indolore -se consideriamo le esplosioni drammatiche che colpiscono i suoi gessi e gli strappi che violentano le sue foto– un passaggio delicato della storia dell’arte contemporanea, quello della decostruzione dell’oggetto d’arte.
C’è una morale, tuttavia, che prescinde dal lassismo in termini tecnici o di contenuto di cui sembra farsi portatrice l’arte nelle sue ultime tendenze: non si può decostruire senza aver prima costruito, non si può combattare un nemico se non lo si conosce.
santa nastro
mostra visitata il 1 giugno 2007
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ancora paolini!! ma lo hanno avvisato, che abbiamo una guerra in casa, ditegli di scendere dalla sua torre d'avorio.
ma dove ci accompagna? la storia siamo noi. quasi otto miliardi di persone, che vivono sopra un pianeta impazzito e surriscaldato.
E gli artisti come Paolini che avrebbero la possibilità di comunicare, pensano solo al loro guadagno, con mostre masturbatorie fuori dalla storia.
Lo spazio, l'equilibrio, l'armonia di Paolini allargano le prospettive di una storia che ci acccompagna.