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fino al 28.II.2004 | Dan Walsh | Milano, Paolo Curti / Annamaria Gambuzzi & Co.

di - 22 Gennaio 2004

Dan Walsh è nato 43 anni fa a Philadelphia, lì ha iniziato i suoi studi, per poi proseguirli a New York, dove tuttora vive.
Pressoché sconosciuto in Italia al grande pubblico, nemmeno in Europa gode di una vasta notorietà. Ha tuttavia esposto in vari luoghi del vecchio continente: recentemente nella francese Delme, in Svizzera –a Ginevra era al fianco di Paul Morrison in una doppia personale–, alla Biennale di Lubiana e a quella di Lione, dove gli era dedicata una sala alla Sucrière in cui era tra l’altro visibile True Blues (2003).
Il suo itinerario artistico ha già subìto un’evoluzione notevole: l’astrattismo cerebrale degli anni Novanta ha ceduto il passo ad una concezione meno formale, più legata alla sfera della corporeità.
In una recente intervista ad Adam Pendleton, Walsh racconta del suo privilegiare un “vocabolario” e una “sintassi”, in opposizione a un “contenuto preconfezionato”. Il fascino per il diagramma ideale -esplicitamente debitore del NeoGeo   Peter Halley – è divenuto qualcosa di più complesso, andando a interagire con la fisicità del dipinto. Il minimalismo diviene ‘manufatto’ – anche letteralmente, visto che Walsh utilizza sì geometrie semplici, ma riproducendole a mano libera – e la forma pura concede spazio all’intuizione meno raziocinante.

Al contrario di ciò che parrebbe di primo acchito, questa posizione rende lo spettatore maggiormente partecipe. La ricerca di “opacità”, l’astio per la pittura troppo accessibile, va inquadrato in un tentativo di rendere più “libera l’immaginazione” di chi osserva. Dunque, opacità non come ricerca di cripticità e concettualismo, ma come forma aperta che inneschi un processo di pensiero disseminante. Perché le grandi narrazioni sono crollate -sosteneva Jean-François Lyotard nel celeberrimo pamphlet su La condizione postmoderna – e Walsh si è ritagliato uno spazio angusto ma stimolante fra la legittimazione trascendente dell’arte e la sua derisione, come scrive Vincent Pecoil, non avendo più ragione d’essere la prima ma nemmeno dovendo accettare acriticamente la seconda.
Con questo bagaglio alle spalle, Walsh non può far altro che riflettere continuamente sullo statuto stesso dell’arte e, di conseguenza, generare allestimenti site specific : nel caso di questa mostra, le tele sembrano direttamente affrescate sulle pareti della galleria. Si tratta di cinque grandi acrilici che assalgono con un’impressione di monocromia, tutti realizzati nel 2003: Cover, Replay, Second Pediment, Tank e Figure 4. Alcuni elementi geometrici ricorrono nei primi quattro lavori, andando a formare una cifra semplice ed enigmatica. Walsh sembra ammiccare a un minimalismo da grande distribuzione e talvolta richiama in modo sfuggente la recente mostra-tour italiana del videoartista  Sven Påhlsson. Ma nel suo caso non v’è ironia e tantomeno intento didascalico. Piuttosto, subentra presto un senso di pesantezza, anch’esso studiato con grande maestrìa: Walsh allestisce infatti le sue mostre appendendo i quadri più in basso del solito, conferendo un’evidente senso di gravità all’astratto. E il trascendente si volatilizza.

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marco enrico giacomelli
mostra visitata il 16 gennaio 2004


Dan Walsh
Galleria Paolo Curti / Annamaria Gambuzzi & Co.
Via Pontaccio, 19 (zona Brera) – 20121 Milano
Orario: dal martedì al sabato dalle 11 alle 19
Ingresso gratuito
Info: tel. 02-86998170; fax 02-72094052; info@paolocurti.com; www.paolocurti.com


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