L’ultima produzione di Armand Fernandez, alias Arman (Nizza, 1928 – New York, 2005), a prima vista è imputabile di connivenza con quell’industria del consumo verso cui lo stesso artista, anni addietro, aveva dimostrato tanto accanimento distruttivo. Letterale: Luca Beatrice non manca di ricordare che Arman faceva saltare costose automobili con la dinamite, negli anni Sessanta (nel 1963 distrugge la MG bianca del cineasta Charles Wilp, che filma l’avvenimento). Eppure, ora come ora l’insistenza sul passato eroico dell’artista risulta inopportuna, quando la retrospettiva ha luogo in una centralissima galleria della Milano più modaiola. Del resto, Pierre Restany aveva profetizzato che, una volta entrato a far parte della nostra cultura visiva, Arman sarebbe stato apprezzato per lo stile ormai consapevole, per un linguaggio compiuto in sé. Ed è lampante che l’ultimo decennio sia caratterizzato da una maturità estetica, dati per assunti in via definitiva i contenuti, per cui il pioniere dell’anti-arte finisce a lavorare con Renault e rientra nei ranghi ammiccando al sistema. Ma neppure si può sostenere sia un’abdicazione. Se la Pop Art ha così ostentato il lucore dell’estetica contemporanea, il Nouveau Realisme, di cui Arman fu tra i padri fondatori, ne ha pur sempre rappresentato il lato critico e contraddittorio.
Arman ha due opposti moti di relazione verso i suoi oggetti: attrazione e repulsione. La critica Tita Reut arriva a sostenere addirittura una lettura drammatica ed ecologista dell’operato dell’artista. In questo caso però balza all’occhio anche un dialogo nostalgico e tenero con l’oggetto. Distruzione del classico violino, ma mummificazione feticista di
Cosa resta? Il ciclo vitale, quello da cui Marcel Duchamp innalzava le sue scelte arbitrarie, quello a cui Arman fa ritorno per fondere e confondere gli elementi in totalità. La morte, che seziona la Danza delle Grazie e ne svela il meccanismo recondito. E la memoria, a costo di essere una vetrina sterile e feticista, salva ciò che siamo dall’oblio, ci riporta alla gioia infantile di accatastare non unicità ma sempre la stessa cosa conosciuta, perché la prima volta ci era piaciuta. E se poi non la scopriremo più così bella, avremmo dovuto pensarci prima di spingere la nostra brama a riempirne il mondo. Come ricorda Restany, non è humour, ma buon senso.
caterina porcellini
mostra visitata il 5 giugno 2007
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Credo che la produzione artistica di Arman dell'ultimo decennio sia stata esclusivamente funzionale al mercato proponendo una serie infinita di opere realizzate riproponendo moduli e stilemi che l'artista aveva proposto già in precedenza; queste opere sono molte volte banali ed esistono di tutti i formati proprio per accontentare qualsiasi tipo di clientela anche in funzione delle diverse disponibiltà economiche.
Certo ha mantenuto un proprio stile riconoscibile, caratteristica che sembra essere snobbata dagli artisti delle ultime generazioni (es. Hirst, Quinn etc.), ma la produzione ultima fa venire esclusivamente una grande tristezza. Un po' come le opere degli anni '90 di Schifano realizzate non si sa da chi per mantenere lo stile di vita autodistruttivo dell'artista.