Fino ai 14 anni generalmente non si parla né di sesso né di morte. “Sesso” e “morte” a quell’età solitamente dovrebbero rimanare due nomi vuoti o perlomeno astratti. Diciamo dovrebbero, perché questo è ciò che crede, che vuole credere ancor oggi, buona parte della società moderna, nonostante la rimasticata e digerita psicoanalisi abbia mostrato (anche se effettivamente non ancora ‘dimostrato’) come in fondo le cose non stiano assolutamente così.
Il mondo idilliaco dell’infanzia e dell’adolescenza si rivela essere tutt’altra cosa rispetto a quello sognato e descritto comunemente. La realtà è altrove. Forse è nelle tele di Andrea Saltini, che riesce a ritrarre con convinta fermezza il rimosso, quello di cui nessuno parla. Il nero delle sue opere rivela con prepotenza l’orrore di una dimensione mai superata e celata in ogni vissuto personale. Il bianco certo non aiuta; allo stesso modo mostra i contrasti d’esperienze non ancora metabolizzate. Un’emozionalità sofferta invade ogni figura e ogni frammento. Ogni tela è un ricordo strappato all’inconscio, un fotogramma della memoria.
Un’espressività sentita è forse la caratteristica più evidente del lavoro di Saltini: i volti ritratti, a volte esasperati da inquadrature ‘grandangolari’, affrontano l’osservatore immediatamente investendolo di trascorsi emozionali noti, caricati per di più da una matericità evidente, dovuta all’uso consapevole di argilla pigmentata.
E’ così che Saltini riporta alla ribalta, anzi alla coscienza, quell’infanzia da incubo che la società contemporanea si ostina a voler mettere sotto silenzio o peggio ancora a tramutare in quell’infanzia da sogno, che pare essere l’unica storia possibile, nelle storie per bambini e in quelle per adulti.
Chi ha mai detto che l’infanzia debba essere per forza un’età aurea? A volte è solo un ricordo che fa parte del passato, a volte è meglio non ricordarla. Le opere di Saltini raccontano quest’ultima infanzia. Quella di cui le favole tacciono.
francesca mila nemni
mostra visitata il 1 dicembre 2004
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