Raghubir Singh (1942-1999) lascia il suo paese natale per l’Europa prima e per l’America poi, ma ci ritorna periodicamente immortalando luoghi e persone che ben conosce, che sembra aver fatto suoi. Non si tratta quindi dello sguardo turistico di chi vede tutto per la prima volta, ma di un occhio che riconosce la realtà. Da giovane il fotografo indiano era rimasto affascinato dal libro di Henri Cartier-Bresson Beautiful Jaipur, ma la perfezione formale del francese poco si addice alla realtà indiana, fondata sul colore e sul caos apparente. Le immagini pulite di Cartier-Bresson parlano di un’India affascinante ma poco realistica, ritratta da occidente, che svela un formalismo che non le appartiene.
Così Singh alla fine degli anni Sessanta inizia a fotografare il suo Paese, stavolta a colori. Comincia a parlare dell’India, ma della “sua” India. L’India della spiritualità sentita, del caos, dei grandi silenzi, dei larghi spazi, della folla confusa. I suoi servizi appaiono sul National Geographic e sul New York Times, rivelando da subito uno sguardo che è anche figlio della civiltà occidentale.
La costruzione dell’immagine, spesso difficile e su infiniti piani prospettici, ricorda molto quella di Lee Friedlander. L’occhio di chi osserva deve scavalcare molti dettagli e molti frames per raggingere il punto di fuga più lontano. Ciò è particolarmente evidente nelle immagini che hanno come soggetto la celebre Ambassador car, la tipica automobile indiana, emblema delle stridenti differenze sociali. Taxi collettivo o lussuosa macchina dell’ambasciatore, furgone per trasportare qualsiasi tipo di merce o bancarella per presentare ogni tipo di prodotto. O ancora, ‘casa mobile’ per trovare un posto in cui vivere. Inserita nel caotico universo metropolitano, questa macchina è spesso il mezzo attraverso cui Singh osserva l’India, spostandosi da un lato all’altro delle città. E i vetri e gli specchietti dell’automobile,come in Lee Friedlander, diventano i mezzi tramite cui frammentare ulteriormente la realtà, renderla ancora più caotica. Il mondo è spezzettato come in un puzzle, scisso in mille inquadrature che ritagliano a loro volta ogni singola immagine.
La composizione –che ha molto anche di Garry Winogrand– e il colore, sempre determinante, sono probabilmente le due componenti che caratterizzano di più questo grande fotografo, in Italia purtroppo non sufficientemente rappresentato. Lo ricordano invece, a ragione, Filippo Maggia e Luca Andreoni con un’esaustiva retrospettiva, mostra che conferma ancora una volta l’interessante ricerca che si svolge nei recenti locali di Via Volta.
francesca mila nemni
mostra visitata il 12 marzo 2005
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