Al piano ammezzato, la collettiva Tre propone opere di John Armleder, Helmut Dorner, Bertrand Lavier, Steven Parrino e John McCracken. Degni di particolare nota, pivotantes intorno al frigorifero ridipinto in acrilico di Lavier, il sinuoso Blue Baby Suicide (1995) di Parrino e il laccato Nach der Baccanale II (2003) di Dorner.
Ma partiamo dall’inizio. Sul nuovo spazio di De Carlo s’è già detto e scritto: la zona non è agevolmente raggiungibile, ma i vicini sono di tutto rispetto (da “Abitare” ad “ArtBook”) e le strutture assai interessanti dal punto di vista architettonico. Il gallerista più rinomato di Milano ha poi deciso di rendere visibile il suo magazzino, in modo tale che entrando si può dare un’occhiata a diverse decina di migliaia di euro ammonticchiati con smaccata tranquillità su ripiani in ferro.
Rudolf Stingel (Merano 1956. Vive e lavora a New York) ha allestito la prima sala coniugando intervento ambientale e pittura. In maniera simile a quanto era avvenuto nella personale al Mart nel 2001, il pavimento è ricoperto da una superficie riflettente sulla quale il visitatore ha qualche remora a poggiare i piedi. Superato il primo imbarazzo, si deambula in un luogo che guadagna in metratura. Alle pareti, cinque tele di grandi dimensioni presentano campiture dorate e barocche sulle quali sono applicate damascature in tulle di foggia arabeggiante. Lo scarto fra la dimensione installativa e quella pittorica è netta e l’effetto non pare quello di un coinvolgimento dello spettatore, piuttosto il contrario. In sintesi, una dimensione sospesa e disagevole.
All’ultimo piano, lo spazio è più raccolto e domina il profumo del legno. Ian Kiaer (Londra 1971), alla sua prima personale italiana, ha allestito tre lavori complessi e fragili. Brügel Project/Icarus è ispirato al viaggio italiano del fiammingo, in specie alla Caduta di Icaro, nonché al “rifugio” caprese di Curzio Malaparte e Adalberto Libera. L’interpretazione del lavoro è quasi impossibile, se non fosse che su un tavolo in legno e ferro dalle gambe cedevoli è appoggiata una spugna e su di essa campeggia un minuscolo modellino metallico della villa-rifugio. Proseguono invece la ricerca sull’opera di Moshe Safdie, com’era avvenuto in Biennale, gli altri due lavori del giovane londinese. Come sottolineato in presentazione, Kiaer recepisce l’interesse per le strutture modulari sviluppato dall’architetto e crea minimali studi. Moshe Safdie Project/Silver Biosphere propone un cubo deformato, un cilindro accasciato e un pallone a pezze esagonali ricoperti da alluminio riflettente e parzialmente scrostrato; Moshe Safdie Project (Orange) si rifà invece a un progetto realizzato in Sudamerica dall’architetto ed è costruito con stecchette lignee contrassegnate da codici a barre e carta arancione incollata con “maquettistica” maniacalità.
In sostanza, De Carlo non fa altro che ribadire la sua attenzione alle punte più avanzate della ricerca artistica contemporanea, dando spazio a certe estremità concettuali che alcuni ritengono ormai esaurite, ma che in quelle sale contestano un giudizio così tranchant. E poi si tratta di De Carlo, e l’esperienza insegna che alcuni galleristi di rado sbagliano.
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