Alcuni, all’inizio del terzo millennio, incontrano ancora parecchie difficoltà a relazionarsi all’immagine fotografica, o meglio a capire la fotografia per ciò che realmente è. La caratteristica sostanziale della riproducibilità dell’immagine fotografica, già ampiamente affrontata da Walter Benjamin nel 1936, è ancora la pricipale nemica della fotografia come “arte”. Per alcuni ancora, la fotografia è arte solo se è fotografia d’epoca -se è vintage – o se è in un’edizione limitata. Il collezionista generalmente storce il naso se ci sono più di dieci esemplari di una stessa immagine. Eppure il pezzo unico, in fotografia, è quasi un nonsense.
Così Pasquale Leccese, direttore di Le Case d’Arte, quasi a dispetto di queste considerazioni anacronistiche, organizza una mostra interessante su uno dei più importanti fotografi statunitensi contemporanei: Joel Meyerowitz.
Una quarantina di scatti degli anni Settanta, ristampati da poco grazie alle moderne tecniche digitali (in un’edizione di 15) mostrano come la riproducibilità sia, a ben vedere, una conquista dell’età contemporanea e non certo una pecca.
A distanza di più di trent’anni i colori di queste immagini sono ancora forti, squillanti, le ombre violente. Sono le fotografie di strada di Meyerowitz. Come tutti, parte da Cartier-Bresson ma arriva presto a Robert Frank e –forse- li sorpassa entrambi.
Del resto la New York che fotografa negli anni Settanta rappresenta un mondo oramai completamente diverso, moderno. Le sue inquadrature rinchiudono il movimento frenetico della città, raccontano una folla che è sempre diversa ed ogni volta svela particolari differenti. E sono immagini che registrano anche le ombre taglienti dei grattacieli che piombano buie sui passanti, amputandoli. Fotografie complesse costruite su mille dettagli e mille persone, eppure cogliendo tutto in un attimo. Questo è il primo Meyerowitz, poi ne esiste un altro, forse ancora più conosciuto: quello che, a partire dalla fine degli anni Settanta, si sofferma sul paesaggio metropolitano con uno sguardo più attento, più meditativo. Lui, che insieme a William Eggleston è stato uno dei primi fotografi a fare del colore una delle componenti fondamentali dell’immagine fotografica, nei suoi orizzonti americani – proprio giocando su luci artificiali e naturali – crea paesaggi surreali, sospesi in una cromia impossibile. Se le immagini di strada parlano soprattutto del rumore e del movimento della città, quelle di paesaggio metropolitano suggeriscono invece il silenzio dei vasti spazi statunitensi. Un atmosfera incantata, che ha il sapore di un sogno.
francesca mila nemni
mostra visitata il 25 febbraio 2005
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