Entrando in sala, i quadri alle pareti quasi si perdono. In senso buono. Ogni tela è disposta su una linea mediana, ad altezza occhi, ognuna è ben distanziata dalla sua vicina. I dipinti non sono molti, almeno non a piano terra, ma sono abbastanza, quasi una decina. Quel numero che basta appunto a dare un giusto ordine all’occhio. Un’omogeneità univoca che non disturba troppo, e non turba neppure la linearità estetica dell’evento. Un’esposizione, quest’ultima, fitta di elementi collanti che uniformizzano e accomunano l’insieme compositivo delle opere.
Ma c’è qualcosa. Un dettaglio che non si nasconde. Ogni lavoro poggia alle pareti in maniera a sé stante, eppure, allo stesso tempo, corrispondendo. Così Dialogo, nella sua forma, comincia a significare un po’ di più. Più di un titolo dato ad una personale milanese. La mostra, interamente dedicata agli ultimi quadri di Marco Neri (Forlì, 1968), è un contenitore esaustivo, attivo, di quei lavori recenti del pittore romagnolo. La misura formale che l’artista sceglie per ogni opera cambia di volta in volta. Ogni pennellata è una scarica calma di intransigenza e fermezza d’esercizio. Nulla è lasciato alla volumetria della ridondanza, tutto è sotto il controllo del caso e del bianco e nero.
I paesaggi che attraversano la pittura di Neri diventano, man mano che li si osserva, soggetti auto-riverberanti. Specchi riflettenti che si lasciano guardare anche in trasparenza, ben oltre le superfici statiche che li precedono. Il geometrismo astratto delle linee e delle figure non è intransigente con se stesso. E se ci si addentra con attenzione, ogni elemento concettuale può essere ricondotto ad un corrispondente reale. Un corrispettivo che crea legami di somiglianza, e che a tratti raggiunge e a tratti scansa, il figurativo.
Forse, allora, il titolo di questa personale non consiste tanto nell’attrazione che unisce e compatta le viste di coppia, come in Campo sintetico e Campetto sintetico, tanto per citare due opere esposte.
Ma il vero discorso, senza un linguaggio e senza voce (Dittico 2 e Dittico 3) è la traslitterazione della pittura stessa. È la formulazione di quello statuto, di quel codex che non ha regole perché non trova punti di contatto con la riflessione, peraltro ontologica, chiusa in sé. È questa l’operazione cancellatrice e rivelatrice assieme dell’estetica di Neri. Intitolare Dialogo, (parola sola che ne genera molte), questa personale autorizza dunque a leggere in profondità.
E ai muri compaiono legami chiastici che annodano il concetto con la sua comprensione, il diegetico con l’indiretto. Allora i piani che intersecano le viste notturne (Citylights), e le tracce sismografiche del tempo (25 Aprile), prendono parte alla vita attiva glissando quella contemplativa. Risultando così un morbido flusso amniotico, un tutt’uno che non espelle, ma che neppure cresce, quell’ombra malferma di una realtà perduta.
ginevra bria
mostra visitata il 16 maggio 2007
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