L’uomo sopporta il molteplice nel bel mezzo della sola
distanza creata dalle differenze; punto in cui l’evidenza dell’essere coincide
con l’evidenza del dubbio, cioè attraverso la certezza che il pensiero diviene
emergendo
tanto e
contemporaneamente. Il pensiero diviene e nel suo essere si ibrida al resto, perché nel
suo essere si coglie come diveniente, come dubitare. Ma se il pensiero diviene
è perché non riesce a rappresentare la totalità dell’essere. Allora il divenire
nel suo essere è un divenire meticciato nell’essere che lo trascende: è
l’accogliere in sé l’altro da sé.
Se è vero dunque che dubbio, molteplicità,
contraddittorietà e mutamento consacrano il pensiero umano nel caos della
libertà, è anche possibile affermare che la messa in scena di tanta ibridazione
è prima di tutto comprensione e inclusione della diversità.
Questa premessa diventa doverosa dal momento in cui al Pac
– sotto l’egida di Giacinto Di Pietrantonio e del giovane Francesco Garutti –
espedienti del pensiero e intuizioni estetiche dialogano su diverse soluzioni
create dalla molteplicità.
Ibrido. Genetica delle forme d’arte è infatti una collettiva che,
riunendo quasi sessanta artisti e un’ottantina di opere, inaugura la stagione
espositiva del Padiglione sotto il segno della mescolanza.
La collettiva avvicina artisti del calibro di
Wolfson, che introduce la mostra con una
insolita “natura morta”, ai padri storici dei mutamenti, come
Beuys e
Pistoletto, il primo presente con una
classica rievocazione di
Pelizza da Volpedo e il secondo attraverso il suo
Mediterraneo intagliato nello specchio di un
enorme tavolo.
Tra
Warhol e i pensieri neutri di
Paolini,
Pettena si presenta con l’installazione
più eclatante dell’evento. Il suo
Archipensiero, infatti, infiamma la prima
stanza, decomponendo prospetticamente (attraverso i filamenti di rafia) lo
statuto simbolico degli spazi, fra estetica dell’architettura e materialità
della
Land Art.
Nelle sale successive, da notare sono gli accenni cinetici
di
Getulio Alviani ed
Enzo Mari,
accompagnate (senza alcun intervallo allestitivo) dalle segmentazioni
cromatiche di
Mendini. Non bisogna dimenticare inoltre lavori più o meno noti provenienti
dagli studi di
Armleder,
Huyghe,
Parreno, Eliasson,
Cattelan (presente con l’ingannevole
Punizioni),
Tuttofuoco,
Tiravanija,
Roccasalva (presente a sua volta con lavori
già esposti nel 2007 alla Gamec),
Hirst e l’iconico
Jan Fabre (sfruttato come vessillo di
Ibrido, attraverso il mezzo busto dal
titolo
Homage a Jaques Mesrine).
Al di là delle combinazioni multiarticolate
ed eteroclite di questa divertente
wunderkammer,
restano da osservare con attenzione alcuni lavori: i contenitori di
Kuri, il busto di
Vedovamazzei, i video di
Pong e gli spaccati filosofici di
Arena.
Da non mancare infine la lettura comparata delle opere in
mostra (sotto-percorso presente all’interno di ciascuna didascalia) e la
galleria di busti posta di fronte alla vetrata del Padiglione: breve gipsoteca
difforme, che restituisce la sensazione di molteplicità attraverso una
gelatinosa serie di ritratti.