Tredici fotografie e una performance. È quello che offre il project space lariano di Marella con il giovane Li Wei (Hubei, 1970. Vive a Pechino), alla sua prima personale italiana.
Scorrono alcune immagini ormai note, per esempio dalla serie Freedegree Over 29th History (2003), dove Li Wei viene scalciato dalle finestre di un grattacielo di Pechino, oppure plana per uscirvi o rientrarvi, come se fosse dotato di un invisibile paracadute. Presenti anche alcuni scatti della serie Li Wei Falls… (2003), dove il performer è brutalmente piombato in un lago ghiacciato oppure nel parabrezza di un grosso fuoristrada. Con il corpo teso, le braccia lungo i fianchi, pare esercitarsi per tuffi olimpionici di una disciplina necessariamente suicida. E la medesima caduta può avvenire nel cortile di una galleria, com’è capitato nella performance organizzata per la serata dell’inaugurazione. Il sistema di cavi che regge l’artista viene poi eliminato digitalmente sulle fotografie che ne scaturiscono, così come è stata cancellata l’imbragatura che indossava per Freedegree… o quando stava per spiccare il volo da un nuogolo di antenne su un tetto.
Sono invece prive di interventi di “post-produzione” le fotografie della serie Dream Like Love (2003-2004), dove la testa dell’artista fluttua priva del corpo ed è accompagnata da figure femminili più o meno abbigliate. La accarezzano e compatiscono se fuoriesce da una vetrata infranta oppure la serbano con delicatezza accanto alle ossa pelviche cinte da slippini minimali. Non resta allora che chiedere qual è il trucco, come i curiosi che assistono a bizzarrìe di presdigitatori. Li Wei racconta come sfrutta le potenzialità delle superfici specchianti. In effetti, in galleria è esposto quello “strumento di lavoro”, un semplice specchio con un foro circolare in cui inserisce la testa. Aldilà del fatto che il foro ha un diametro assai ridotto, è interessante comprendere la natura della riflessione che vi soggiace e il pensiero non può che andare alla millenaria tradizione cinese che, come insegna il taoismo, non ama i pensieri antinomici e le rasoiate dogmatiche.
“Alcune cose sono chiare e reali, altre sono oscure e irreali”, racconta l’artista. “In mezzo c’è un universo di cose ‘offuscate’, semi-reali”. Lo specchio è dunque una manna per indagare il territorio di confine. “La lastra dello specchio è reale. La mia testa all’interno anche. L’immagine è una proiezione e in quanto tale è irreale. Ma specchiando la realtà non è totalmente irreale. È una questione di forma e informe, di concreto e astratto. I confini sono labili…”. Riflessione giocosa, dunque, solo ad uno sguardo superficiale. Perché come ci insegnano i più triti stereotipi sulla Cina, coloro che la popolano sanno trattare con leggerezza le questioni fondamentali. Per mostrarci che un anelito di vita può esprimersi con assoluta evidenza anche dal pene eretto di un cadavere coperto da un candido sudario. “È un uomo qualunque, un prototipo. Quando si muore, se non abbiamo portato a termine i nostri obiettivi, qualcosa ci blocca sulla soglia. In quel cadavere infatti vive ancora qualcosa. Grazie alla tecnica medica, con la flebo. E nel corpo, con il pene eretto”.
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Il sito dell’artista
marco enrico giacomelli
mostra visitata il 13 novembre 2004
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