Come sempre le immagini di Catherine Opie mostrano una realtà diversa dal consueto. E ancora una volta non sono i soggetti ad essere determinanti, ma il suo sguardo.
Personaggi della comunità gay-lesbica, architetture statunitensi, surfers, adolescenti: ogni cosa è ritratta con occhio allo stesso tempo rivelatore e apparentemente obbiettivo. Apparentemente, appunto. Formalmente discrete e impeccabili, le
Una ventina di bambini, tutti fotografati come l’antico ritratto in studio imponeva: sfondi monocromi, illuminazione uniforme, soggetto al centro dell’inquadratura, possibilmente seduto su una sedia o su uno sgabello, nient’altro. Ma è passato più di un secolo da quel determinato tipo di fotografia, e si sente. Innanzitutto i colori: forti, eccessivi, violenti a dispetto di quei bambini dal volto innocente, cui la tradizione ha sempre attribuito i colori pastello dell’azzurro e del rosa. Qui invece si parla di rosso, di verde, di giallo, di blu, di tonalità che collidono con l’aspetto delicato di questi ragazzi e soprattutto con la loro serietà.
Perché non sono i soliti ritratti asettici e sorridenti, ma sono ritratti di bambini veri con lo sguardo e la fantasia rivolti chissà dove. Bambini che pensano a tutto fuorché al fatto d’esser fotografati. La Opie è riuscita a coglierli nell’esatto momento in cui la loro
E c’è molta naturalezza nonostante si tratti –ovviamente- di fotografie in posa: ogni bambino sembra esser stato lasciato da solo nella stanza con i suoi vestiti e i suoi pensieri, in realtà c’era anche Catherine Opie, presenza discreta che partecipa, osserva, poi fotografa.
Unica pecca l’allestimento: i venti ritratti disposti lungo due pareti dello spazio rischiano l’effetto horror vacui e le luci al neon, certo, non aiutano. Niente da dire invece sulla prima immagine: un grande autoritratto della fotografa col suo bambino campeggia, unico, nella piccola stanza antistante. E parla da sé.
francesca mila nemni
mostra visitata il 27 ottobre 2004
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