La grande mostra ospitata nell’incantevole cornice neoclassica di Villa Olmo a Como si concentra sugli ultimi decenni dell’opera di Joan Mirò (Barcellona 1893-Palma di Maiorca 1983), in particolare sugli anni sessanta e settanta (curiosamente Parigi ospita in questi stessi mesi una mostra ‘complementare’, che espone gli anni dal 1917 al 1934).
Gli ultimi decenni della vita e dell’opera del grande Catalano sono quelli in cui egli adotta un nuovo tipo di cifra stilistica, non come scelta improvvisa ma come risultato di ragionato lavoro e conservando la memoria e l’esperienza di tutto il proprio corpus precedente.
L’artista persegue nella sua opera una semplificazione archetipica, nonchè il superamento formale del Surrealismo.
I segni/simboli utilizzati da Mirò ormai da molto tempo hanno ormai acquisito la coerenza di un vocabolario e la loro collocazione e reciproca interazione diventano il vero significante delle opere: si tratta dei segni appropriatamente analizzati in una mostra temporanea organizzata nel 2001 alla Fondazione Mirò di Barcellona, ossia il sole, la stella, l’occhio, la scala, la freccia-uccello, la luna…. Segni che diventano riconoscibili come simboli, ma che possono suscitare svariate associazioni – derivazione psicanalitica, questa, che rappresenta l’unico retaggio del Surrealismo.
Grande merito della mostra è quello di mettere in risalto agli occhi del visitatore l’assoluta valenza della produzione scultorea dell’artista, molto cospicua nei decenni in questione e molto rappresentata in mostra. Sculture straordinarie che nella maggioranza dei casi sono assemblaggi, fusioni in bronzo di objet trouvés, non tanto eredità delle avanguardie storiche come il Dadaismo quanto piuttosto risultato della ricerca di un’espressione prettamente personale.
Le opere non sono esposte in ordine cronologico ma raggruppate tematicamente, scelta davvero felice e funzionale alla visita; sono presenti inoltre tutte le tecniche e i supporti usati da Mirò nei sessanta e settanta: bronzi, ceramiche, dipinti, grafiche, arazzi…
Compiendo il percorso della mostra il grande pubblico viene posto davanti all’evidente smentita di un fraintendimento comune dell’opera di Mirò: troppo spesso le sue opere sono viste come portatrici di allegria, spensieratezza e immediatezza.
La cifra stilistica raggiunta da Mirò è sì leggera e trasparente, ma solo perchè aperta all’infinito e alla rappresentazione archetipica ed universale dell’esperienza –si tratta di vere e proprie cartografie dello spirito; tale rappresentazione contiene in sè anche le parti più drammatiche dell’esperienza individuale e collettiva –traspira dalle opere dell’artista un’attenzione da novello umanista verso l’individuo e un interesse da convinto democratico per la dimensione sociale (Mirò, nel ricevere la laurea honoris causa, pronunciò un discorso sulla “Responsabilità civica dell’artista”).
Purtroppo il titolo della mostra sembra rappresentare una strizzata d’occhio alla parte di pubblico in cerca solo di spensieratezza: se il termine “alchimista” sembra appropriato nell’accezione di “indagatore della materia” attribuitagli dal curatore Massimo Bignardi, la sua collocazione nel titolo rischia di perpetuare il fraintendimento di cui sopra e di mettere in ombra la perfezione dell’architettura interna di ogni opera, indipendente dal cromatismo più o meno acceso e dalla gestualità e istintività con cui spesso Mirò lavorava, che derivavano solo dal suo talento.
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stefano castelli
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