Il custode della galleria Ciocca è un piccolo e irrequieto cagnetto che accoglie abbaiando lo spettatore nel momento esatto in cui mette il piede sulla soglia, e lo distrae da quello che sta per vedere. Non appena si solleva lo sguardo, si viene invece avvolti da uno spazio bianco e asettico, percorso lungo tutto il perimetro dalla corsa indefinita di una linea rossa e dallo sgocciolare di un sottofondo sonoro che ci proietta in uno spazio onirico sottilmente ansiogeno.
Emerge dal candore dello sfondo una moltitudine di figurine lattescenti che transita lungo il tortuoso cammino. Mollemente modellati, con le grandi teste appoggiate su corpi dalle piccole proporzioni gotiche, sono gli Acrobati Erranti di Marisa Albanese, “costretti a peregrinare per la terra al fine di sfuggire alle fratture […] del mondo contemporaneo, le quali privano l’uomo del legame archetipico che lo lega al luogo”. Dove per luogo si legga il concetto originario di genius loci e il rapporto quasi religioso tra l’individuo e il territorio che lo ha generato dandogli una vita e un’identità. Non a caso gli omini sono realizzati in argilla, un materiale inusuale per l’artista napoletana, che è una citazione letterale della terra. Tutti della stessa sostanza ad un’occhiata sommaria, ma tutti diversi se li si osserva uno a uno, come l’umanità. Ce ne sono alcuni assembrati e altri che si attardano, qualcuno che si esibisce in evoluzioni ginniche come su un filo da funambolo, altri che trascinano moderni trolley, altri ancora con i crani incasellati in caschi, una cifra stilistica non nuova nell’immaginario di Marisa Albanese.
La fuga dal non-luogo postmoderno, dalla frattura dello spazio conosciuto, è il monito che dà il titolo alla mostra (Mind the Gap) e la condizione del peregrinare senza meta diventa metafora dell’instabilità esistenziale. Il viaggio galattico, fuori dallo spazio e dal tempo, si incarna nel ridondante rito dello spostamento quotidiano nella video-installazione al centro della stanza, dove le immagini dei giovani viaggiatori con i loro bagagli passano da uno all’altro dei tre schermi accostati creando ripetuti momenti di discontinuità. In corrispondenza dei punti cardinali sono posti quattro televisori in asincrono che ripropongono la stesse sequenze in cui il sonnambulesco scorrere delle immagini viene interrotto ossessivamente ogni tre secondi da brevi schermate porpora, a indicare la tensione verso un senso incombente di precarietà. Un leitmotiv che si ripete con scelte espressive semplici e, anche se utilizza mezzi dell’ultima generazione, installazioni e video, resta il dubbio che ci sia qualcosa di troppo ingenuo.
Di certo quel che emerge dalla prima personale di Marisa Albanese è una sensibilità quasi orientale: racconta l’angoscia con levità, lontana dal chiasso dell’espressionismo sia nel minimalismo cromatico, sia negli atteggiamenti mansueti, di accettazione, dei piccoli uomini di una fiaba senza happy-end.
martina gretel
mostra visitata il 7 novembre 2006
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