Il protagonista di un breve racconto di Paul Auster scopre la fotografia spiando. Guardando le riprese ossessive di un vicino di casa. Un dirimpettaio che scatta in maniera maniacale. Appostato alla stessa finestra, dalla medesima angolazione e sempre intento su un particolare. Il fotografo è instancabile, fisso, inchiodato e concentrato su un solo soggetto. Un angolo di strada piantonato dall’obiettivo ad ogni ora del giorno e della notte. Con o senza la luce delle stagioni. Con oppure senza i passi qualsiasi di chi lo attraversa. La fine della storia coincide con la rivelazione, quasi distratta, del mistero. Il fotografo incallito misurava il tempo. Mantenendo l’inquadratura fissa sullo spazio, la variabile fluida della casualità poteva venire sezionata, salvata e, infine, esportata caustica. Ogni fotogramma diventava così una zolla franca, un istante in sé, ma fuori, lontano dal termine scaduto dei minuti e delle ore.
L’operazione artistica di Rohn Meijer (Amsterdam, 1970) è un processo, per alcuni motivi, inverso rispetto a quello della trama del racconto. Il fotografo olandese, nella realtà, da anni scatta per confezionare servizi di moda. Poi un giorno, per caso, lasciando i negativi di un suo reportage in un cassetto, all’umido, fa una scoperta. Un po’ come il personaggio inventato dallo scrittore americano. Meijer trova il modo di innestare e velocizzare l’andatura del tempo solido, quello perpetuo e proprio dello scatto. L’umidità infatti ha prima attecchito e poi macchiato i suoi lavori. Gli agenti micotici reagendo e impastandosi con il materiale attivo dei negativi hanno cominciato un de-corso (o forse un per-corso) incontrollabile. Come sulle rovine, sui ruderi, le muffe hanno ricamato e grondato i visi scultorei dei modelli.
Queste fioriture implacabili hanno introdotto un margine spinoso nella staticità del ritratto. Così la metamorfosi si è rivelata. Una sorta di nuovo lucore, un effetto pittorico e colorista invasivo. Un pulviscolo impazzito che, in coda allo scatto, falsa le ombre e le pose dei soggetti immortalati a vita (e oltre) su pellicola.
In galleria sono esposte una cinquantina di opere. Lavori che, forse, ormai, hanno poco a che fare con la fotografia, ridotta ad un mero supporto, un pretesto, un’origine per giustificare il motivo d’esistere dell’immagine. I ritratti affidati alle macchie del tempo sono pagine di diario che tracciano mappe inesistenti. Sentieri dell’umidità. Stampati su carta cotone compaiono volti perfetti, occhi enormi, nasi lineari e pose ieratiche. Ogni tanto qualche sprazzo marmoreo tenue insegue un corpo, partendo dai lati della cornice per insinuarsi verso il centro. L’effetto è disturbante, morbido, invasivo e contrastante. E l’occhio si fa sottile, vedere diventa raschiare, guardare sotto le scaglie del tempo. Un gioco in equilibrio che non stanca, solo perché affidato al caso e non più all’immagine stessa.
ginevra bria
mostra visitata il 13 aprile 2007
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