Robert Rauschenberg, Able Was I Ere I Saw Elba, 1983. Installation view at Galleria Gesti e Processi, Museo del Novecento ph. Marco Bertoli
È delicata e quasi mimetica la mostra di Robert Rauschenberg (Port Arthur, 1925 – Captiva Island, 2008) al Museo del Novecento di Milano. Centrata secondo un’impostazione che sebbene non si possa dire innovativa, si rivela certamente sicura a tal punto da “rischiare” un contesto. Le opere del maestro americano sembrano, infatti, scomparire tra le sale del museo, non per poca importanza conferitagli dai curatori Gianfranco Maraniello e Nicola Ricciardi con il supporto di Viviana Bertanzetti, ma per la rilevanza che riescono a rivendicare nel panorama più ampio della seconda metà del secolo breve. Il centenario dalla nascita è solo il movente che dall’autocompiacimento della celebrazione avalla la soluzione più interessante di una lettura.
La possibilità, detta in altre parole, di osservare le otto opere realizzate da Rauschenberg tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta a partire da una concatenazione di rapporti che oscillano tra l’oggettualità del Nouveau Réalisme e l’Arte Povera, passando dagli anni Trenta per arrivare a Cattelan e Schifano. Non a torto si potrebbe affermare che l’arte non sia altro che una questione di sguardi. Di attenzioni e di trasformazioni continue che si susseguono e poggiano l’una sull’altra. Among Friends titolava l’ultima edizione di miart, con un riferimento all’ultima retrospettiva che a Rauschenberg era stata dedicata dal MoMa di New York tra maggio e settembre 2017. E tra amici si ritrova ora, in dialogo con momenti poetici a lui precedenti, coevi o addirittura più giovani. Poco importa, dunque, chi abbia influenzato prima e chi abbia dato il via a una certa maniera. Innegabile è l’azione pionieristica di Rauschenberg, oltre la glorificazione del pop, radicata nella critica seria e forse ironica delle circostanze ancora così attuali degli anni Cinquanta e Sessanta.
L’avanguardia di Alberto Burri, pertanto, va a braccetto con Parsons’ Live Plants Ammonia (Cardboard) del 1971, che l’artista di Port Arthur realizza conferendo valenza immediata a pezzi di cartone ormai desueti. Composizioni che non evitano il dramma, sebbene sfruttino compostezza ed equilibrio: matrici formali radicate nella storia, che si ritrovano armonizzate su supporti di compensato. I combine-paintings, quale Untitled (Spread) del 1983, emergono puliti e nitidi, seguendo la naturale collocazione nell’insieme di immagini trasferite con solventi, collage di tessuto e oggetti trovati. Da Arman si procede verso Daniel Spoerri.
L’arte oggettuale narrata da Pierre Restany sapeva come dare nuovo risalto alla realtà. Una realtà che è stata incerta, forse perdutamente distante, di massa e, per questo, posta al centro di interrogativi che, malgrado tutto, hanno chiarito lo spunto per ulteriori innovazioni. Richiami e “appropriazioni” per via dei quali si è saputo dare la giusta proporzione all’opera, rendendola capace di essere incidente, poiché unita, chiara e, a un tempo, provocatoria. Il dato oggettuale si ripropone. La scultura in metallo Summer Glut Fence (1987) non trascende la Festa cinese di Mario Schifano, mentre le immagini volatili e fluttuanti di Hoarfrost (1974), impresse su tessuti di cotone e seta leggera, recuperano l’ineffabilità della ricerca di Giulio Paolini.
Il grande pannello in ceramica (Able Was I Ere I Saw Elba, 1983), che riprende Bonaparte valica il Gran San Bernardo di Jaques-Louis David, si affaccia su I morti di Bligny trasalirebbero di Arturo Martini. Che siano uno in risposta all’altro? Che vi sia una continuità della storia e del suo fondamento? La storia che una volta di più si torna a percepire come frutto del fantasma warburghiano. Discussa non per opposizioni, né tanto meno per distruzioni reciproche, poiché finalmente colta nella sua complessa trama anacronistica.
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