La mostra “Battlefields” da Peres Projects a Milano mostra la simbologia pervasiva della cultura consumistica americana che è alla base del lavoro di Mark Flood. Le opere in mostra requisiscono e distorcono l’iconografia aziendale e nazionale per rivalutarne l’impatto, la logica e l’autorità.
Flood critica la cultura contemporanea appropriandosi del suo linguaggio visivo. Rende, per esempio, sfocata una bandiera americana per mettere in discussione la fattibilità del sogno americano. Utilizza slogan testuali su tele che imitano e distorcono la pubblicità convenzionale. Ma piuttosto che voler sostenere una posizione politica o persuadere direttamente il suo pubblico verso certe convinzioni, Flood con le sue opere coopta i mass media per esporre le assurdità della società moderna. I simboli visivi che egli adotta sono sempre presentati in modo ambiguo, per confrontarsi con l’uso delle immagini come strumenti di manipolazione e controllo.
Siamo dunque nel terreno della comunicazione e degli effetti che essa produce sia sulla società nel suo complesso sia sui comportamenti dei singoli.
Fin dagli anni Ottanta, all’inizio della sua carriera espositiva, Flood ha esplorato sagome mostruose del corpo umano come veicolo di significazione. Con “Battlefields”, Flood ritorna al motivo delle mani raggruppate esplorato nei dipinti precedenti, che ripete in forme sagomate variabili su diverse tele.
Nell’opera “Authority with Fuzzy Flag” (2018), è ritratto un denso muro di braccia alzate in un saluto suggestivamente fascista, mentre l’altra è arrotondata e disordinata, come arti impigliati in una valanga di detriti. “Cannon Fodder” (2022) è invece rappresentativo di costruzioni più indisciplinate. Esse raffigurano braccia sollevate in gesti ambivalenti che evocano qualcosa tra la sfida, la resistenza e il vulnerabile agitarsi. Per Flood, i gesti delle mani sono al contempo onnipresenti e aperti all’associazione, portatori di un significato astratto piuttosto che di messaggi espliciti.
Ancora, in “Listen” (2017), Flood interviene su un’istantanea esistente di un conduttore del telegiornale della CNN, che viene inquadrato come se fosse seduto per un ritratto. L’immagine ricorda i ritratti a busto di figure autoritarie, un tropo comune in tutta la storia dell’arte occidentale. In questa interpretazione il volto della figura è oscurato da pennellate grezze in gradienti di grigio, come se indossasse uno scudo facciale e i suoi occhi scrutassero attraverso piccoli fori. La parola “Listen” (ascolta) aleggia accanto alla sua testa, come un sottotesto subliminale che allude al costrutto propagandistico dei notiziari via cavo contemporanei.
Torna in mente la celebre riflessione del sociologo canadese Herbert Marshall McLuhan intorno all’ipotesi secondo cui il mezzo tecnologico che determina i caratteri strutturali della comunicazione produce effetti pervasivi sull’immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell’informazione di volta in volta veicolata. Di qui, la sua famosa e sempre attuale tesi secondo cui il mezzo è il messaggio.
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