A Collection for the 21st Century. Part 2 in Hamburger Bahnhof, Berlin, Germany on August 31, 2024 @Jacopo La Forgia
In un’epoca in cui i bilanci culturali si assottigliano e le istituzioni museali sono chiamate a svolgere funzioni sempre più simili a quelle di centri civici e sociali, diventa inevitabile chiedersi cosa sia oggi un museo e quale sia il suo orizzonte di azione. Negli anni Settanta, l’institutional critique aveva già aperto questa riflessione: Hans Haacke, Michael Asher, Daniel Buren avevano messo a nudo i meccanismi interni, le ideologie nascoste e le asimmetrie di potere racchiuse nelle cornici museali. Cinquant’anni dopo, quella domanda non solo rimane aperta, ma si moltiplica, muta e si tecnologizza.
La mostra Museum in Motion. A Collection for the 21st century, organizzata dall’Hamburger Bahnhof di Berlino e curata da Sam Bardouil, riunisce dieci lavori di grande formato —tra cui alcune nuove acquisizioni— realizzati negli ultimi venticinque anni, che assumono proprio questa instabilità delle istituzioni museali come punto di partenza. Il titolo stesso fa riferimento a come i musei siano in constante trasformazione: spazi dinamici che rispondono ai mutamenti della società, agli sviluppi tecnologici e alle spinte demografiche.
Esempio di ciò è l’imponente lavoro Protruding Gallery, Powerless Structures di Michael Elmgreen e Ingar Dragset: una galleria che sembra sprofondare nel pavimento del museo, con la scritta “Contemporary Art” —in parte già sotto il terreno— che diventa un commento sulla dimensione effimera dell’arte e sulle narrazioni istituzionali che la conservano artificialmente nel tempo. “Temporary Art” è infatti tutto ciò che ancora si legge. L’installazione è accompagnata da tutta una serie di fotografie di musei vuoti, inviate dalle stesse istituzioni agli artisti. Mostrandoci questi spazi intonsi, Elmgreen e Dragset ne enfatizzano le caratteristiche architettoniche, dimostrando come i musei non siano mai spazi neutrali, come già enfatizzato da Daniel Buren nel suo saggio Function of the Museum, del 1970.
Particolarmente interessante è anche Bergama Stereo – Berlin Fragment dell’artista turco Cevdet Erek: un’installazione di un rosso acceso la cui forma si rifa all’altare di Pergamo, trasportato dall’odierna Turchia a Berlino alla fine del Diciannovesimo secolo. Erek incorpora nella scultura casse che suonano musica techno, voci inquietanti e sinfonie di tamburi provenienti dai Balcani, dalla Turchia e dal Medio Oriente. Questa stratificazione di suoni riflette su come ogni opera d’arte accumula in se numerosi e intercambiabili significati, anche in base al luogo in cui è esposta e per chi è pensata la sua fruizione. L’opera diventa così un organismo acustico e vivente, che unisce in sé geografie, storie e conflitti, restituendo all’oggetto musealizzato un corpo pulsante.
E poi ancora: incontriamo le fotografie di frammenti statuari e paramenti sacri di Ricarda Roggan, che ci interrogano su che cosa è degno di essere preservato e chi porta avanti queste decisioni; il lavoro di Manaf Halbouni riflette su come i musei del ventunesimo secolo possano diventare casa —e cassa di risonanza— per le storie di chi non ha più un luogo a cui appartenere; la video installazione di Jeremy Shaw, poi, trasporta la danza e le sottoculture nello spazio istituzionale, facendo crollare la linea di separazione tra cultura “alta” e folkloristica.
Museum in Motion, perciò, non propone risposte, ma solleva quesiti. L’esposizione di Bardouil non ci mette di fronte agli occhi un modello definitivo, ma piuttosto un laboratorio aperto, dove il museo si rivela per quello che forse è sempre stato: un sistema instabile, attraversato da conflitti e possibilità, sempre in cerca di un equilibrio provvisorio.
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