Convento Carmine di Scilci. Foto di Luigi Nifosì
Come vuole l’emblematica cinquecentesca, le formiche sono segno di prudenza, infatti «questi animaletti la state proveggono per il verno, portando il grano alle loro case» ma anche «porge a noi esempio di fatica quando porta il suo in bocca la formica» (Lodovico Dolce, Dialogo dei colori, Venezia 1565). Segno positivo, di impegno comunitario, le formiche sono per questo anche una grande metafora politica e sociale. È con questo intento che Emilio Isgrò le presenta in Opera delle formiche, la grande e complessa antologica curata da Marco Bazzini e Bruno Corà con cui il MACC – Museo d’Arte Contemporanea del Carmine di Scicli ha aperto la sua attività espositiva.
Dallo spazio di Piazza Busacca l’invasione operosa delle formiche di Isgrò apre un varco nel complesso settecentesco del Carmine e lo conquista. Sono le formiche, infatti, che da quel basolato, attraversate le strisce, conducono fin dentro al chiostro che, in collaborazione con il MAXXI, ospita Non uccidere, l’installazione di Isgrò integrata a un’architettura di Mario Botta in cui le tavole della legge, in dieci lingue, cancellate in ogni comandamento, ne conservano uno soltanto. La struttura architettonica, che sembra evocare una sorta di occhio insieme terrestre e celeste, si carica di simboli religiosi e civili per diventare un viatico per il futuro.
Nel lavoro di Isgrò le formiche sono il punto di arrivo di una lunga gestazione formale e concettuale che ha inizio con le cancellature, cioè con quella procedura che gli artisti, da Robert Rauschenberg in poi, hanno praticato come paradossale omaggio a un testo o a un’esperienza avvertite come imprescindibili. Come ci sentiremmo, infatti, se le carte geografiche non parlassero più con i nomi dei luoghi, se i poemi e miti fossero lontani fantasmi sbiaditi? Formiche e cancellature mettono in risalto ciò che è assolutamente essenziale, a volte esponendolo, a volte negandolo alla vista.
La tensione paradossale di Isgrò al “monumento”, da un lato a destituirne la funzione, dall’altro a confermarlo come presenza necessaria, trova modo di esprimersi nella prima opera che si incontra per le scale che conducono al primo piano e alla biglietteria, La lumière de la Liberté, una Statua della Libertà imbracata alla quale sono scivolate di mano tante fiaccole accese. Lo spazio espositivo del museo ricorda, nella sua estesa copertura a capriate, altri luoghi espositivi della traduzione museale italiana, in particolare il San Marco di Firenze, ma in chiave meno essenziale e con delle soglie utili a tagliare il corridoio centrale in ulteriori ambienti.
Nella mostra di Isgrò i “panari” (cesti) ricolmi di carrube dorate segnano le tappe fondamentali della produzione dell’artista. Sono in mostra alcuni dei lavori che hanno segnato la ricerca di Isgrò dalla fine degli anni Sessanta in poi: le prime cancellature, i titoli dei giornali, Il viaggio di Enea del 1968, Dichiaro di non essere Emilio Isgrò del 1971, e poi opere dalla Collezione Intesa San Paolo, la cancellatura della perduta Natività caravaggesca di San Lorenzo a Palermo, in una sorta di autocurriculum, per citare il titolo del libro di Isgrò edito da Sellerio, che rende chiari i passaggi di un artista che ha inteso la sua ricerca come la vorace testimonianza di un mondo per molti versi indicibile.
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