Palagonisch, Installation view, Courtesy Verein Düsseldorf Palermo
«Non è possibile formarsi un’idea giusta dell’Italia senza aver visto la Sicilia: qui sta la chiave di tutto». Questo è la frase con cui Goethe ci introduce alla Sicilia. Nelle pagine del suo diario un ruolo di rilievo è dedicato anche a uno dei più conosciuti e visitati monumenti di Sicilia: Villa Palagonia a Bagheria. Superba ed eccentrica villa. La sua costruzione ebbe inizio nel 1715 per volere di Don Ferdinando Gravina e Crujllas, IV principe di Palagonia, pari del regno, cavaliere del Toson d’oro, prestigiosa onorificenza dei re di Spagna.
Pensando all’architettura, ai decori delle ville, delle chiese, dei palazzi nobiliari del tempo, tutte progettate per esaltare la ricchezza, la fede, l’origine aristocratica dei proprietari, appare difficile immaginare che un nobile del tempo potesse dare vita a qualcosa di così spiazzante che suscita ossimori quali terribilmente bello, attraente e ripugnante e via di questo passo. Soprannominata, non a caso, la “Villa dei Mostri“, dovuta alla particolare decorazione che adorna i muri esterni formata da statue in “pietra tufacea d’Aspra”, raffiguranti animali fantastici, figure antropomorfe, statue di dame e cavalieri, musicisti e caricature varie. La villa affascina per questa atmosfera tetra e magica immortalata per sempre in una mobilità eterna. E Goethe, probabilmente, non potè fare altro, dando voce al suo sentire, che coniare un nuovo termine per esprimere la sua costernazione di fronte all’inaspettato: Palagonisch.
Ed è questo neologismo che dà il titolo al progetto espositivo; neologismo che sottende il l’idea guida della sua cifra: svelare artisticamente il “palagonico”, il terribilmente bello, e svelarlo rendendolo sensibilmente accessibile al pubblico. Visitando la mostra presso l’Haus Der Kunst dei Cantieri Culturali alla Zisa si resta stupiti, disorientati, sprovvisti quasi di categorie di giudizio perché si osserva ciò che non ci si aspetta e questa reazione “opprimente, solitamente sorprendente, si ottiene combinando ciò che è apparentemente incompatibile: legge e arbitrarietà, saggezza e sciocchezza, vivi e morti, divertimento e orrore”.
Guardando i lavori dei tre artisti, Giuseppe Agnello, Gabriele Massaro e Stefan à Wegen, si intuiscono alcuni topos: l’ignoto, la paura dell’altro, rimandi ai miti e alle fiabe, un’estetica “bizzarra e barocca”. Con questa breve introduzione, e con molta curiosità, mi approccio ai curatori della mostra, Alessandro Pinto e Michael Kortlander, attraverso alcune domande che raccontino “la creazione di un ‘mondo sottosopra’, un ‘contromondo’ e quindi un antipodo all’ordine familiare delle cose”.
Cos’è l’arte per gli artisti?
«L’arte per gli artisti è una necessità, la necessità di esprimersi, di trovare vie e codici per condividere il loro messaggio».
Cos’è Palagonisch?
«Palagonisch è un’intuizione di Goethe. Di fronte ad una visione inaspettata, per quanto anticipata da resoconti e letture, quella di Villa Palagonia a Bagheria e delle sue sculture, Goethe prova repulsione e allo stesso tempo attrazione. Nella sua descrizione sembrano ravvisarsi i principi del grottesco, soprattutto nell’ars combinatoria tra elementi inaspettati. Questa descrizione andava definita con un neologismo, appunto palagonisch. Nel testo della Italienische Reise, palagonisch appare una quindicina di volte e ogni volta sembra esprimere questa dualità, attrazione e repulsione verso un oggetto».
Cos’è per loro l’orribilmente bello e la prima immagine che gli viene in mente?
«I tre artisti non hanno espresso l’orribilmente bello in modo programmatico, ovvero con opere realizzate in occasione della mostra. Ma siamo stati noi curatori a riprendere il concetto di palagonisch e considerarlo nuovamente categoria estetica. Da lì siamo passati a selezionare quegli artisti intellegibili secondo questa categoria, ma la lista era ed è davvero ampia. Sembra a noi che il palagonisch sia anche una categoria dell’uomo, quel senso di attrazione e repulsione che si prova quotidianamente e per oggetti o situazioni anche molto distanti tra loro».
Cos’è il bello e lo spiacevole nell’arte?
«Nell’arte bello e spiacevole sono due facce della stessa medaglia. Ci è venuto in mente Edgar Allan Poe mentre preparavamo la mostra e soprattutto il suo commento al titolo della raccolta “Tales of the Grotesque and Arabesque”. Due principi che si innestano l’uno nell’altro, la pulsione a esprimere lo straordinario nel grottesco e la necessità di ordinarlo secondo il medium utilizzato, l’arabesco, dandogli una forma per il pubblico. Ma sono principi irrequieti, cambiano secondo i momenti storici, le tendenze artistiche e culturali».
Hanno lavorato insieme gli artisti e il loro confronto se è esistito?
«Non c’è stato un confronto diretto, ma uno scambio di opinioni mediate da noi curatori.
Due su tre hanno visitato Villa Palagonia. Ma non in vista della mostra. Villa Palagonia fa parte di un bagaglio artistico e culturale che rimane sottotraccia, sedimenta e, anche se in maniera nono diretta, ispira gli artisti».
A cosa hanno pensato per la realizzazione delle loro opere?
«I tre artisti hanno una formazione e una pulsione diversa. Stefan à Wengen realizza le sue opere partendo da immagini note, riconoscibili per poi trasfigurarle in pittura attraverso una presentazione perturbante. In Gabriele Massaro invece si ha la percezione che le sue opere siano il risultato di un ampio dibattito sul medium della pittura. Le sue stratificazioni di colori, le diverse tecniche utilizzate e i motivi rappresentati pongono domande su cosa sia la pittura e quale sia il suo ruolo nell’arte di oggi. Con Giuseppe Agnello la scultura ritorna plasmazione, in un modo lirico le sue opere ci portano a un tempo arcano, ad un primo sguardo un tempo antico, ma invece comune e odierno, dove sono i materiali da lui utilizzati, le pietre di alabastro, il sale, i calchi delle piante a determinare la loro percezione».
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