Benyamin Zolfaghari e Giuseppe Antonio Lo Presti, Lessico familiare, veduta della mostra, Curva Pura, ph. Giorgio Benni, Courtesy Curva Pura, Roma 2025
Un allestimento essenziale, lineare, senza nulla di aggiunto alle opere se non qualche coordinata spaziale affinché i due artisti dialoghino nel reciproco misurarsi con quanto di più intimo eppure quotidianamente esposto esista nella vita degli esseri umani, il Lessico familiare. Ed è così che infatti si intitola la bipersonale presso Curva Pura di Roma, a cura di Nicoletta Provenzano. Un lessico familiare di due artisti dal cammino e dalla ricerca ben differenti e che pure perfettamente tessono insieme il loro racconto. Antonio Lo Presti e Benyamin Zolfaghari costruiscono opere molto diverse tra loro, interventi scultorei il primo, pittura il secondo, che pure si rispecchiano non creando cesure, ma un fluire visivo che ci riporta proprio in quel vedere che, come scrive Franz Kafka, ci pone su un confine labile tra l’interiorità e l’esteriorità: «Tre cose: vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo».
È questo che i due artisti fanno con le opere in mostra, aggiungendo la consapevolezza dello sguardo terzo che in quelle tre cose deve ritrovare anche il suo personale senso. È così che gli sfumati contorni dell’immateriale discorso familiare diventano nella mostra dati concreti e oggettivi.
Planimetrie, piante diradate, stratigrafie, alzati di saperi e ricordi e sensazioni, mappature insomma che potrebbero essere relegate in un luogo della memoria o dell’oblio e che vengono invece ricomposte per creare una grammatica che spartisce con cura tanto nelle pieghe orografiche di Lo Presti quanto nei segni rarefatti o improvvisamente ammatassati di Zolfaghari, le parti che strutturano il discorso – sostantivi avverbi e verbi – tutti limpidamente avvertibili.
Nella pulizia di segno che accomuna i due artisti la mostra crea un suo ritmo e una sua episteme, costruisce il luogo da cui parte l’immaginazione: il limite, che sia esso smarginato tra vecchi libri o composto su piccoli fogli. Oltre quei limiti si creano le risonanze, le figure che sono l’aldiqua quotidiano di ricordi e sistemi di segni che pur nel loro personalissimo svolgersi diventano riconoscibili da ognuno.
Il legame sempre intenso e scandagliato di Zolfaghari con il suo persiano, una scrittura antichissima che da sempre si è fatta anche calligrafia, dimensione artistica della costruzione della parola, crea il ricordo e il presente in un unisono sempre vicino ma mai totalmente assorbito dal monocromatico, annodando segni che trasformano i fonemi in immagini narranti che, pur mantenendo il loro versante enigmatico, aprono la concentrazione del ricordo nel dispiegarsi e divagare del presente, del “vedere ora”.
Lo Presti costruisce coste da lambire, da guardare con quella curiosa apprensione con cui si guarda una scogliera alta e impervia quando la si sfiora con una imbarcazione di cui si percepisce la fragilità. Perché fragile è il ricordo, faticosa la ricostruzione delle personali enciclopedie che ciascun essere umano porta con sé e mette con qualche inquietudine alla prova del taglio dei giorni.
Una mostra che è un invito a un costante interrogarsi per imparare a spostare il proprio sguardo sulle cose in una lontananza capace di ricomporre un di dentro e un di fuori che spesso invece ci troviamo a guardare, nel nostro tempo slabbrato e incerto, come luoghi e paesaggi estranei.
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