Danilo Correale, DWYL, veduta della mostra, Galleria Tiziana Di Caro, Napoli 2022. Photo Maurizio Esposito
L’inizio del nuovo millennio ha sancito un passaggio epocale, che ha modificato completamente le società dell’uomo e, forse, proprio la generazione nata e cresciuta tra i due secoli ha potuto cogliere meglio tale mutamento. Generazione di cui fa parte Danilo Correale, artista classe ’82 e attualmente di base a New York, che ha dato vita alla mostra “DWYL”, acronimo di Do What You Love, Fa ciò che ami, ma anche di Don’t waste your life, Non rovinare la tua vita, esposta presso la Galleria Tiziana Di Caro di Napoli.
La sua ricerca si focalizza su un elemento che, scaltramente intrufolato tra gli ingranaggi sociali, ha completamente stravolto le certezze identitarie, al fine di destabilizzare quella parvenza di sicurezza conquistata dalle generazioni precedenti. Facendo diventare il precariato una condizione ordinaria nel mondo del lavoro, si è dato impulso a un processo di sgretolamento delle sicurezze individuali e condivise, catapultando buona parte della società nell’inquietudine. Questo stratagemma ha scosso l’identità lavorativa dell’individuo contemporaneo, creando scompensi sociali e psichici. Non che questo concetto fosse sconosciuto prima ma, di sicuro, negli ultimi decenni ha agito da da leva decisiva per far sì che la politica neoliberista azzannasse l’idea già traballante di Stato Sociale e, soprattutto, uno degli elementi portanti delle democrazie del Dopoguerra: il lavoro.
Correale affronta tale questione in maniera precisa, approfondendo il senso di disagio istituito da una sorta di persistente immobilità verso un sistema che premia chi è in grado di costruirsi costantemente una “reputazione” basata su stratagemmi estetici e mediatici.
La prima opera, esposta all’ingresso della galleria napoletana, è composta da tre ampi specchi “amplificati” da dispositivi audio che diffondono un dialogo tra vari personaggi, i quali esprimono i propri dubbi sull’attuale sistema lavorativo e sulla necessità di costruire per un’immagine esterna di sé, così da garantire un riconoscimento mediatico del proprio lavoro. Lo spettatore, che si riflette sulle superfici specchianti tra le altre figure, è invitato ad agire da soggetto di un nuovo percorso.
Nella stanza successiva, la scultura iperrealista di un giovane uomo si trascina pesantemente, tanto da rigare in profondità il parquet della galleria. Questa installazione-scultura contempla la fatica del lavoro ma evidenzia anche la mancanza di un’identità definita e la dissipazione di risorse cognitive. Termina la mostra una serie di disegni chiamati “sinistri”, per nominare lo sforzo dell’artista di non averli disegnati con la mano dominante e contrapponendo quest’azione allo sforzo intellettuale dello spettatore di “completare con la parola idonea” le vignette che si utilizzano in psicoterapia.
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