Categorie: Mostre

Italian Wave, la generazione inquieta dell’immagine va in mostra a Roma

di - 30 Giugno 2025

La mostra Italian Wave, aperta fino al 24 settembre alla Galleria Tornabuoni di Roma, vuole essere sia un tributo alla florida stagione della pittura italiana tra gli anni ’70 e ’80, sia un atto di restituzione a una genealogia artistica che ha saputo reinventare i linguaggi visivi in un’epoca di radicali transizioni. La collettiva riflette su un momento cruciale della scena italiana in cui la pittura diventa dispositivo aperto, ricettivo, capace di assorbire influenze esterne (dal cinema alla musica, dalla letteratura alla cultura materiale), dando vita ad una molteplicità di forme, tecniche e riferimenti.

Il titolo si rifà a quello della mostra che Francesca Alinovi – critica d’arte e docente all’Università di Bologna, tragicamente scomparsa nel 1983 – curò nel 1980 alla galleria Holly Solomon di New York: un progetto che anticipava lo spostamento dell’attenzione critica dal concetto di “movimento” a quello di individualità. Come scriveva la stessa Alinovi nel catalogo della mostra statunitense, si trattava di riconoscere «Una condizione di convivenza libera e reciprocamente gratificante di tutti mezzi materiali possibili» e di una «Universalità che celebra il soggetto».

Italian Wave riattiva proprio questa inclinazione, dalla disgregazione dei linguaggi formalisti alla proliferazione di voci, stili e supporti, riunendo le opere di otto protagonisti: Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Aldo Mondino, Luigi Ontani, Mimmo Paladino e Mario Schifano. Pur nella specificità di ciascun percorso, gli artisti in mostra condividono una tensione comune: mettere in crisi i confini disciplinari, aprire la pittura all’immagine elettronica, all’oggetto trovato, al libro d’artista, alla performance e al suono.

Luigi Ontani, Dafne e deficiente, 1986, olio su tavola, 72 cm ø. Courtesy Tornabuoni Arte

La mostra si apre, infatti, con Ombrofago di Luigi Ontani, un video prodotto nel 2008 da Matteo Boetti. Lì l’artista – come scriveva il curatore svizzero Jean-Christophe Ammann – «Si è davvero trasformato in un essere mitico» nell’ambito di un racconto in cui identità, travestimento e storia dell’arte si fondono. L’opera, allora corredata da un cofanetto di litografie edito dalla Litografia Bulla, è il cuore pulsante di una pratica in cui l’artista stesso è medium e messaggio, autore e immagine.

In questo scenario, Mario Schifano rappresenta l’archetipo dell’artista poliedrico, capace di oltrepassare la pittura per implicare musica, cinema e fotografia. La sua attività non si limitava alle tele; egli fu, infatti, tra i primi artisti italiani a percepire la necessità di rompere i confini disciplinari e a confrontarsi con i linguaggi popolari e mediatici. Nel 1967 entrò in contatto con una giovane band romana chiamata Le Stelle, la quale, in seguito al suo coinvolgimento diretto, cambiò nome in Le Stelle di Mario Schifano. Il nuovo nome non era solo una questione di riconoscibilità, ma anche un riferimento esplicito a uno dei soggetti più ricorrenti della sua produzione artistica: le stelle, per l’appunto, raffigurate perlopiù su supporti non convenzionali come lastre di vetro e metallo. Una di queste immagini appare anche sulla copertina dell’unico LP del gruppo, intitolato Dedicato a… e pubblicato nel 1967.

Schifano divenne parte integrante della band, ideandone l’impianto visivo e concettuale: curò la grafica, le scenografie e soprattutto l’immaginario che avrebbe accompagnato i concerti dal vivo. Durante la storica serata di presentazione al Piper Club di Roma, la musica rock psichedelica del gruppo veniva accompagnata da proiezioni video che alternavano immagini del conflitto in Vietnam, dei Viet Cong, scene di cronaca e inserti pop: un montaggio visivo potentissimo che travalicava i limiti del concerto tradizionale per trasformarlo in un’esperienza immersiva e perturbante.

Alberto Moravia, che recensì l’evento sull’Espresso, colse con lucidità il valore anticipatorio di quel live show, il primo in Italia a fondere musica, arte visiva e intervento politico in un’unica narrazione. La mostra in via Bocca di Leone 88 rappresenta un’occasione per ascoltare i brani dell’album e leggere l’articolo dello scrittore e giornalista romano in proposito.

Aldo Mondino, figura eccentricamente eretica, anticipa molte delle riflessioni attuali sull’identità e il sincretismo culturale. Opere come Arlecchino storico e il suo strumento 75, 1971 e Calpestare le uova (2003) mostrano la sua abilità nel maneggiare citazioni e materiali in un continuo cortocircuito di significato, in bilico tra ironia e riflessione. La sua formazione, avvenuta a Parigi sotto la guida di Gino Severini, affonda le sue radici nel mosaico; quest’ultimo riaffiora nei lavori più sperimentali, dove tecniche e materiali “poveri” – come carte di cioccolatini o frammenti ritagliati – sono assemblati secondo una logica che evoca il mosaico, pur rimanendo coerente con uno stile personale fatto di scarti, frammenti e dirottamento visivo.

Da non tralasciare è Nicola De Maria con La Russia Sovietica del 1981, opera esposta anche ad un’edizione passata di Documenta, in cui la pittura si fa meditazione quasi liturgica. La ricerca di De Maria trova corrispondenze nel lavoro di Enzo Cucchi, il cui linguaggio si fa sincretico e contemplativo, con opere come Fiori di luce, un collage aperto che sfugge alla chiusura dell’immagine tradizionale. Cucchi incarna una dimensione lirica e quasi epica del gesto artistico.

Enzo Cucchi, Fiori di luce, 1996, olio, tempera e collage di carta su masonite, 100 x 120 cm. Courtesy Tornabuoni Arte

Invece, Il Bestiario (1980) di Sandro Chia, libro d’artista su poesie di Roberto Triana Arenas, è un raro esempio di ibridazione tra parola e immagine, dove l’elemento zoomorfo si fonde con quello umano in un gioco di metamorfosi. L’edizione, realizzata da Romolo Bulla, è una testimonianza dell’attenzione al libro come oggetto d’arte, tema che torna anche con Prisca di Enzo Cucchi, altro progetto editoriale in mostra. Mimmo Paladino e Francesco Clemente completano questa coralità con opere che attingono a simbolismi arcaici, pratiche artigianali, evocazioni mediterranee: una pittura che si fa rito, memoria e desiderio. In particolare, Porta d’Oriente di Paladino, esemplare emblematico degli anni Ottanta, inchioda pezzi di pane su una superficie totemica, trasformando materiali semplici in segni di una spiritualità terrena che richiamano una preghiera.

Mimmo Paladino, Cimento, 2009, 77×58 cm

La mostra si propone, dunque, non come documento di una stagione passata ma come rilettura di una fase di intenso cambiamento dell’arte italiana, in cui la pittura si fa cerniera tra media e contenuti. Italian Wave celebra la complessità di una generazione che ha rifiutato ogni riduzionismo linguistico, scegliendo la pluralità come metodo, la contaminazione come forma, l’ibridazione come politica dello sguardo. Un’energia diffusa, indisciplinata, ancora oggi capace di parlare al presente. Per dirlo ancora una volta con le parole di Alinovi: «Oggi l’artista ha di nuovo di fronte a sé una condizione di libertà sconcertante. […] Il problema è quello di captarla». Questa mostra, grazie a una marcata sensibilità curatoriale e a un acume profondo, ci riesce.

Nata a Bologna nel 1982, vive e lavora tra Bologna, Milano e Roma. Laureata in Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bologna, oggi è curatrice indipendente di mostre d’arte in Italia e all’estero. Iscritta all’ordine dei giornalisti, scrive articoli di arte per Il Resto del Carlino e per altre riviste del settore. Sportiva, appassionata di viaggi e… totally art addicted.

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