Gumbo è la mostra di Tomoo Gokita a cura di Alberto Salvadori in corso fino al 30 novembre 2024 presso Fondazione ICA a Milano. Il titolo fa riferimento a una pietanza tipica del Louisiana inventata dalla popolazione afroamericana: una zuppa stagionale che ha una sua preparazione specifica ma con molta libertà di realizzazione: un piatto che ha al suo interno una grande quantità di ingredienti. A partire da questa metafora, la mostra è un racconto curatoriale il cui tentativo principale è risaltare l’essenzialità formale di Gokita proponendo un effetto di straniamento allo spettatore.
Artista giapponese nato nel 1969 e cresciuto a Tokyo, ha elaborato la sua poetica attorno alle immagini della sottocultura pop americana degli anni Sessanta e Settanta, elaborando un immaginario unico; le cui forme sono mescolate con chiari riferimenti al movimento artistico dell’Informale. L’esposizione studiata per il secondo piano dell’istituzione sfrutta la natura semplice e spoglia dello spazio architettonico per esaltare i dipinti, utilizzando le piccole sale per i disegni e quattro sculture di cartapesta che fanno da legante intimo.
Nella sala più grande abbiamo le opere di grande dimensione a cui è dato grande respiro. I colori sono tenui all’interno di questa produzione specifica per Fondazione ICA, persino il giallo e il rosso risultano slavati. È proprio questo senso di appiattimento e di conformità il fulcro della pratica mostrata in Gumbo, quasi a indicare un miscuglio, una miscela inzuppata di tonalità di grigio, tipiche della sua pratica artistica iniziale.
Questa idea di flusso psicologico è esemplificata all’interno dei ritratti delle figure femminili, per citarne alcuni quali First Lady (2024) e Queen of Karaoke (2024). La prima opera è posizionata in un paesaggio indefinito con una figura femminile di profilo, in posizione istituzionale, con un dettaglio bizzarro: le gambe nude in posizione da subrette con a fianco un omino di pan di zenzero, a dimostrare un chiaro interesse surrealista dell’artista giapponese. La stessa posizione quasi di profilo la vediamo nella seconda opera, dove una donna in posa seducente, con un microfono in mano intenta a cantare, in uno spazio spoglio e senza pubblico. I due dipinti hanno in comune il fatto che le figure esprimono una forte tensione erotica per quanto non rappresentino figure riconoscibili poiché prive di contorni.
La banalità in questo caso è da intendersi come una percezione che definisce l’appiattimento e la confusione dei riferimenti culturali, mischiati nell’inconscio dell’artista. Confusione che porta lo spettatore a guardare queste figure facendosi trascinare da questo insieme. Le starlette, le pornostar e i wrestler si mescolano in un immaginario deformato, in cui le figure sono come spogliate di riferimenti certi, dove l’artista pone al centro una lettura emotiva complicata, afferente a un disorientamento mentale rappresentato da aspetti culturali e la quotidianità vissuta.
Nell’esperienza sensoriale che viviamo ogni giorno ci restano impresse emozioni e percezioni restando attaccate alla nostra pelle. Così le sensazioni dell’artista sono immerse, come se fossero inserite nell’epidermide dei dipinti, all’interno dei colori.
Nel celebre testo di Kandinskij Punto, linea e superficie, in una citazione nella prefazione di Max Bill (1955) riguardo all’arte astratta e concreta vi è una critica esemplare rispetto alla perdita contenutistica dell’arte, dovuta a un’apparente non-lotta contemporanea nell’affermare nuove forme estetiche nell’arte. Ma il caso dell’opera di Gokita non segue questa via, bensì è dalla sintesi finale della forma che ne emerge il contenuto emotivo. La mostra è orchestrata in modo lineare, rispettando appieno la poetica dell’artista, proponendo questi pezzi unici all’interno del racconto di Tomoo Gokita, esaltandone l’informalità delle sue opere d’arte.
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