Lorenzo Pacini, Intervallo, 2017. Pecore di plastica su tela
«La missione dell’arte non è di copiare la natura, ma di esprimerla», scriveva Honoré de Balzac. Ed è proprio dal suo monumentale ciclo narrativo La Comédie Humaine, affresco complesso e sfaccettato della società francese dell’Ottocento – che prende ispirazione il titolo della mostra La Commedia Umana. Un dialogo a due voci, aperta fino al 30 agosto 2025 nelle sale dell’Ala Nuova della Pinacoteca Comunale di Città di Castello. A cura di Simona Bartolena e Francesca Barberotti, l’esposizione mette in scena il fecondo confronto tra le poetiche di Armando Fettolini e Lorenzo Pacini, due artisti lontani per linguaggio ma vicini per urgenza espressiva. La mostra, promossa da Spazio Heart con il patrocinio del Comune, è composta da oltre sessanta opere – tra pittura, scultura e installazione – che riflettono sul cuore pulsante della nostra civiltà: l’essere umano, colto nella sua totalità, tra virtù e abissi, speranza e disincanto.
A coinvolgere e rendere ancora più interessante questa mostra è il contrappunto tra i due artisti, che offrono due sguardi divergenti, mostrando però una medesima inquietudine. Se Fettolini – milanese, classe 1960 – indaga con delicata empatia le forme della fragilità umana, restituendo corpi esili, deformi, marginali, quasi svuotati dall’omologazione e dall’indifferenza, Pacini – fiorentino, nato nel 1970 – è il cantore acido e tagliente di un’umanità compromessa, cinica, persa nei meccanismi crudeli del potere, della vanità, dell’informazione manipolata. Un dialogo che ricorda quello, mai risolto, tra Caravaggio e Rembrandt: il primo immerso nella crudezza teatrale del reale, il secondo intento a scavare nella psiche con struggente tenerezza. «Entrambi affacciati sulla Commedia umana», come scrive Francesca Barberotti, Fettolini e Pacini danno vita a un contrappunto visivo che non si limita alla giustapposizione, ma si interseca, si smentisce e si rilancia.
La scelta curatoriale di mescolare le opere lungo le cinque sale espositive riflette una volontà di contaminazione, di scambio continuo, come in una partitura musicale dove ogni voce richiama e risponde all’altra. Un connubio perfetto, dunque. Al punto tale che la mostra, a prima vista, sembrerebbe un insieme di opere realizzate site specific e per l’occasione: quando in realtà si tratta di tutti lavori precedentemente realizzati, che attraverso una scelta felice e un’approfondita analisi delle curatrici, sono stati messi in dialogo tra loro. Anzi, si potrebbe dire che quelle opere erano già in dialogo tra loro, anche senza saperlo, e la mostra ha offerto soltanto l’occasione per farle incontrare.
Così lontani, dunque, eppure così vicini. Sul piano tecnico, in effetti, le scelte dei due artisti segnano due traiettorie distinte, ma entrambe orientate alla verità della materia. Pacini lavora con bronzo, assemblaggi, readymade, e approda a forme espressive libere, ironiche, dense di riferimenti colti e spiazzanti. Le sue installazioni sono trappole semiotiche, oggetti-simbolo di una società che implode sotto il peso dell’infodemia, dell’algoritmo, del pensiero preconfezionato. Niente è lasciato al caso, neppure i titoli, che spesso diventano chiavi d’accesso a significati nascosti. Fettolini, invece, esplora la forza poetica della pittura, attraverso un’ampia varietà di supporti: gesso, tavola, carta. La sua è una ricerca paziente, quasi liturgica, dove il gesto diventa carezza e le imperfezioni si fanno segno di vita. Le sue figure – ingobbite, smarrite, silenziose – sembrano uscite da un mondo in attesa di redenzione. Non a caso, egli stesso afferma che «difendere le frangibilità umane è un atto di resistenza».
La mostra non è semplice esposizione, ma esperienza critica. In un’epoca in cui il pensiero è spesso appiattito da un flusso costante di immagini e parole, l’arte di Fettolini e Pacini impone una pausa. Invita a sostare, a rimettere in discussione le certezze, a riflettere su ciò che siamo diventati. La loro è una chiamata all’empatia, ma anche alla responsabilità: «Difendere l’inespugnabile cervello», come scrive Bartolena, significa proteggere la capacità di sentire e pensare, senza farsi dominare da automatismi sociali o intellettuali.
In un celebre passaggio, Theodor W. Adorno scriveva che «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità».
Le opere di Pacini e Fettolini accolgono questa sfida: non pretendono di dire il vero, ma di svelare la complessità, l’ambiguità, la tensione drammatica del vivere contemporaneo. Sono specchi rotti, frammenti che riflettono un mondo dove tutto sembra interconnesso eppure disperatamente isolato. In questo, dunque, potremmo definire questa mostra necessaria. In tempi incerti, confusi, affamati di visioni autentiche, La Commedia Umana non è solo una mostra: è un esercizio di coscienza, un atto di coraggio estetico e civile. Ci ricorda, con forza e dolcezza, che l’arte non è mai evasione, ma presenza attiva nel mondo, testimonianza, provocazione, atto d’amore. «Siamo uomini, non numeri, non algoritmi. Non scordiamolo mai.» Non è un caso, quindi, se l’unica opera realizzata per l’occasione di questa esposizione, è: «Preghiera di un ebreo per i bambini» di Fettolini, in cui l’artista ci impone una riflessione ulteriore su ciò che sta accadendo e continua ad accadere attorno a noi.
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