"Bice Lazzari. I linguaggi del suo tempo". Milano, Palazzo Citterio; installation view
Fino al 7 gennaio 2026 Palazzo Citterio a Milano ospita la mostra Bice Lazzari. I linguaggi del suo tempo. L’esposizione a cura di Renato Miracco in stretta collaborazione con l’Archivio Bice Lazzari di Roma e la GNAMC – Galleria Nazionale D’Arte Moderna e Contemporanea di Roma è accompagnata da testi di Christine Macel e Dorothy Kosinsky, e raccoglie 110 opere che raccontano la carriera della pittrice in oltre quarant’anni storia.
Bice Lazzari (Venezia 1900 – Roma, 1981) è stata una pittrice delicata e diretta, chiara nella sua dinamica. Protagonista di una storia artistica la cui invisibilità è durata a lungo, come scrive Christine Macel. Fatto dovuto alla sua riservatezza, ma vittima più che altro di «ragionati preconcetti» già denunciati da Linda Nochlin nell’articolo Why Have There Been No Great Women Artists? pubblicato su ARTnews nel 1971. Un’attenzione mancata che riattiva il rimpianto dovuto alla cattiva ideologia e che dovrà aspettare gli anni Sessanta per essere ribaltata. In America, innanzitutto, grazie alla mostra Eccentric Abstraction (1966) a cura di Lucy Lippard, e quasi vent’anni dopo in Italia, con la celebre esposizione L’altra metà dell’avanguardia firmata con gran coraggio da Lea Vergine nel 1980. Eppure il suo posto è chiaro, il lascito consistente, la qualità indiscutibile. Tanto da raggiungere nell’ultimo ventennio i traguardi che merita. Come la personale alla Phillips Collection di Whashington DC (The Poetry of Mark Making); la partecipazione all’esposizione Women in Abstraction al Centre Pompidou di Parigi (entrambe del 2021) e l’inclusione come unica donna nella mostra Kandinsky e l’avventura astratta (Peggy Guggenheim Collection, Venezia, 2003), per la sua particolare ricerca in tal senso.
Unica, ad essere precisi, che ora può essere seguita da vicino grazie alla mostra che Palazzo Citterio gli dedica con la curatela dello storico dell’arte Renato Miracco e accompagnata nel catalogo edito Allemandi dai testi della già citata Christine Macel e Dorothy Kosinsky. Bice Lazzari. I linguaggi del suo tempo, visitabile fino al prossimo 7 gennaio 2026, va dunque guardata in prima battuta tenendo presente il trascorso della pittrice, e assaporando nel suo impianto la via storica non lineare che viene suggerita. Una vicenda tutta sua che la vede, subito dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti, lavorare nel campo delle arti applicate, per poi tornare, dopo la Seconda Guerra Mondiale, a quella che diceva essere «Arte con la a maiuscola», ossia la pittura. E più che di evoluzione bisognerebbe parlare di intreccio, che dai ritratti di fine anni venti (Autoritratto, 1929) la porta ad approcciarsi al dipinto con uno stile personalissimo. Dall’uso del pannolenci, al mosaico (La vanità, 1949), fino alla realizzazione di cuscini di lana tessuta al telaio (Cuscino, 1928).
Un’astrazione a cui arriva, per sua stessa ammissione, «senza maestri né modelli» e senza sapere nulla della pittura astratta all’estero «a causa del clima provinciale di isolamento culturale che regnava allora». E poi ancora il collage e la tempera (Collage n.2, 1959) che gli permetteva continuamente di sperimentare la superficie, quasi a tesserla in armonie e contrappunti secondo un «sistema di segni, un linguaggio asemico che rimanda alla nota, verbale o musicale, in cui il valore risiede nella forma stessa, più che nel testo comprensibile» (D. Kosinsky). Sorprende pertanto la capacità della pittrice di andare oltre la giustificazione di un segno, del suo apparente apparire, ma per dirigere nel dipinto ora nato da un’esperienza propria. Quanto si viene a stabilire è una «stretta relazione tra immagini e struttura narrativa» (R. Miracco), nel rapporto tra un segno incontrato, sorto dal profondo, che assume forma e raggiunge il suo accordo (Racconto n.2, 1955; Architettura I, 1955). È la tela che accompagna e guida, «può prenderti la mano, la tua inesperienza il tuo limite», ha affermato l’artista. «Giochi e scopri che un segno ha un significato che determina uno spazio; è un processo interno che conduce ad una scoperta».
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