La tempesta nel bicchiere, veduta della mostra, galleria Francesca Antonini Arte Contemporanea, veduta della mostra, Roma, 2025, ph. Filippo de Majo
Fino al 12 settembre 2025, la galleria Francesca Antonini Arte Contemporanea di Roma ospita La tempesta nel bicchiere, una mostra collettiva a cura di Saverio Verini con opere di Mario Airò, Gregorio Botta, Daniele Di Girolamo, Beatrice Pediconi e Alberto Savinio. Un’esposizione intima e compatta, che parte dal tema dell’acqua, per allontanarsi però dalle sue iconografie più scontate e muoversi invece lungo traiettorie sottili, contenute e meditative.
Non ci sono flutti in tempesta, naufragi o richiami al sublime marino. L’acqua, in questa mostra, rinuncia alla sua potenza devastante e si fa elemento domato: un elemento che nutre, lambisce, fluttua, si insinua con dolcezza nei meccanismi della visione. È un’acqua che non invade ma si lascia contenere, tanto da legittimare il titolo ironico ed eloquente, che suggerisce un dramma minimo, forse immaginario. Ma La tempesta nel bicchiere è anche una riflessione sulla forma e sulla misura, sull’idea stessa di rappresentazione e di sopravvivenza del gesto artistico.
Il riferimento all’epigrafe di John Keats, di cui leggiamo nello splendido testo introduttivo del curatore, «Here lies One whose Name was writ in Water», diventa così una chiave interpretativa che attraversa tutta la mostra. Scrivere nell’acqua: metafora della fragilità, ma anche della possibilità di trattenere, per un attimo, l’effimero; di dare una pelle all’impalpabile.
A introdurre il percorso espositivo è l’opera sonora di Daniele Di Girolamo (Pescara, 1995), A Measure of Distance I (2), che accoglie il visitatore con un suono vibrato, simile al moto regolare della risacca. Inserendo della sabbia all’interno di superfici rotanti, l’artista costruisce un amplificatore acustico, citando così l’acqua per evocazione in un’interessante operazione sinestetica. La sua pratica artistica, votata a dare forma a ciò che per natura non ne ha, si muove tra materia e immagine, lasciando emergere una dimensione percettiva che ha a che fare con la memoria, l’esperienza e il corpo.
La mostra prosegue con Chi non ha mai sentito la pioggia, ride delle ninfee, opera di Beatrice Pediconi (Roma, 1972) che incorpora l’acqua nel processo creativo. L’artista lavora da anni con un metodo che unisce fotografia e pittura. Qui lascia che vecchie pellicole Polaroid si sciolgano in acqua e trasferisce poi i filamenti ottenuti sulla tela, dove si ricompongono in forme floreali ed evanescenti. Il processo è tanto delicato quanto preciso: richiede attesa, immersione e ascolto. Il risultato sono composizioni sospese, che si aggrappano al supporto come membrane, restituendo una scrittura per immagini in cui la fragilità diventa forza.
La scultura di Mario Airò (Pavia, 1961), Untitled, unisce invece due fiori in un morbido ma apparentemente instabile abbraccio, grazie ai sinuosi vasi che li ospitano, collegati tra loro come due estremità di una stessa linea curva disegnata nello spazio. Anche qui, l’acqua è presente ma silenziosa, racchiusa in strutture che ne disciplinano il fluire. Il lavoro si colloca su quella soglia delicata tra lirismo e tensione, come se ogni sua parte potesse franare in qualsiasi momento, ma allo stesso tempo restasse ancorata a un’intima armonia.
Diversa, eppure coerente, è la presenza di Muta di Gregorio Botta (Napoli, 1953). Una ciotola di bronzo, posta a un’altezza che ne impedisce la vista diretta del contenuto, sembra galleggiare nella sala. L’opera invita all’ascolto silenzioso, al raccoglimento. La sua disposizione sfugge alla frontalità e impone uno sguardo obliquo, più interiore che contemplativo. L’acqua, invisibile ma suggerita, diventa qui il centro immobile di una sospensione liturgica, una sorta di reliquia che resiste al tempo e allo sguardo.
L’ultima opera esposta è un disegno di Alberto Savinio, Turbine o storia vera – La nostra nave fu innalzata da un turbine. Il tratto sintetico, la leggerezza della scena, il movimento ascensionale della nave: tutto concorre a creare un’immagine che non ha nulla di tragico, ma piuttosto di epico e fiabesco. È forse in questa visione trasognata e sollevata che si cristallizza il senso ultimo della mostra: una piccola epifania che non cerca di travolgere, ma di restare a galla, accompagnandoci con essa.
La tempesta nel bicchiere è una mostra fatta di dettagli, di vibrazioni leggere e di gesti misurati. Un’ode alla discrezione dell’acqua, alla sua capacità di trasformarsi senza perdere la propria natura. In un contesto storico che premia l’eccesso e la velocità, l’arte si riprende il suo ritmo lento, scrivendo sull’acqua senza mai dissolversi del tutto.
La Società delle Api nomina Luca Lo Pinto come direttore artistico: la Fondazione creata da Silvia Fiorucci sposta a Roma…
Fino al 22 marzo 2026, la Fondazione Luigi Rovati celebra i Giochi Olimpici con una mostra che unisce storia, arte…
È morto Giovanni Campus: se ne va un protagonista rigoroso e appartato dell’arte italiana del secondo Novecento, tra gli innovatori…
La pollera, da indumento retaggio di subordinazione femminile nell'America Latina a simbolo di emancipazione internazionale: la storia del collettivo ImillaSkate,…
Talk, inaugurazioni, musei aperti, gallerie in rete, nuove mostre e il Premio WineWise per una gita fuori porta: gli appuntamenti…
A Milano, dal 5 dicembre 2025, apre Ambrosius, il nuovo percorso museale della Basilica, che intreccia patrimonio storico, ricerca scientifica…