Suzanne Duchamp, Factory of My Thoughts, 1920, Gouache, ink, and watercolor on paper, 45 x 55 cm Courtesy Galerie Natalie Seroussi copyright Suzanne Duchamp / 2025, ProLitteris, Zurich
Tra le stirpi artistiche più influenti del Novecento, la famiglia Duchamp rappresenta un caso singolare, una costellazione di talenti che ha ridefinito, ciascuno a suo modo, i linguaggi dell’arte moderna.
Eugène Duchamp (1848–1925) e Lucie Nicolle (1856–1925), pur non essendo artisti in senso stretto, furono fondamentali nel creare un ambiente familiare straordinariamente stimolante. Lui, notaio colto e amante della musica, collezionava xilografie con rigore quasi filologico; lei, figlia di un medico, suonava il piano e incoraggiava nei figli l’interesse per la letteratura, la conoscenza, le arti. La loro casa era un luogo in cui la libertà di pensiero e la curiosità intellettuale non solo erano tollerate, ma attivamente coltivate.
Non stupisce dunque che quattro dei sei figli intrapresero percorsi artistici con esiti significativi: Gaston Duchamp, in arte Jacques Villon (1875–1963), si affermò come incisore e pittore cubista; Raymond Duchamp-Villon (1876–1918) fu uno dei maggiori scultori del modernismo, prima di morire prematuramente durante la guerra; Marcel Duchamp (1887–1968) rivoluzionò l’arte del XX secolo con i suoi ready-made e la visione concettuale radicale. Infine, Suzanne Duchamp (1889–1963), la più giovane, fu a lungo oscurata dalla fama dei fratelli, ma oggi viene finalmente riconosciuta come una delle protagoniste più originali del Dadaismo parigino. In corso fino al 7 settembre, la retrospettiva della Kunsthaus di Zurigo rappresenta la prima retrospettiva dedicata a Suzanne Duchamp fuori dalla Francia. Più che un tributo tardivo, è un’occasione necessaria per restituire centralità a una figura rimasta a lungo in ombra.
Il legame tra Suzanne Duchamp e Zurigo non è diretto né biografico, ma si inserisce nel contesto storico e culturale del Dadaismo, nato nella città svizzera nel 1916 con il Cabaret Voltaire. Mentre il Dada zurighese, animato da Hugo Ball (1886–1927), Emmy Hennings (1885–1948), Hans Arp (1886–1966) e Tristan Tzara (1896–1963), si esprimeva in termini radicali e politici, quello parigino, a cui Suzanne aderisce dal 1919, si muove su un piano più intellettuale, venato di ironia e ambiguità intellettuale. La mostra riannoda idealmente questo filo, riportando una voce del Dada francese nel luogo simbolico in cui il movimento ha avuto origine.
Oltre ottanta opere tra dipinti, collage, assemblaggi, manoscritti e materiali d’archivio ripercorrono l’evoluzione di una ricerca visiva densa, stratificata e mai ancillare. Il fulcro dell’esposizione si concentra sul decennio 1916–1925, anni in cui Suzanne elabora un linguaggio visivo intimo fatto di segni e simboli. Al centro di questa fase si colloca il meccanomorfismo, una poetica in cui il corpo e la psiche vengono resi come dispositivi meccanici, strutture artificiali in tensione. Non si tratta di una celebrazione della macchina, ma di una riflessione sottile sulla frammentazione dell’identità in epoca moderna.
Nei suoi tableaux-poèmes, immagine e scrittura si sovrappongono attraverso lettere sparse, numeri, frasi spezzate e linee geometriche che compongono delle partiture visive. Opere come Multiplication Broken and Restored (1919), Solitude Entonnoir (1920) e Marcel’s Unfinished Work (1919) raccontano una poetica della disarticolazione in cui il disordine è la premessa per una trasformazione. Menzione speciale per i colori bellissimi, la sua tavolozza è intensa e luminosa, con colori brillanti come blu cobalto, rossi accesi, gialli vivi e verdi saturi, accostati con libertà e cura. Il colore ha un ruolo strutturale, sottolinea le fratture formali, accompagna il ritmo compositivo e introduce una componente emotiva all’interno della costruzione logica dell’opera.
Negli anni successivi, insieme a Jean Crotti (1878–1958), artista svizzero e compagno di vita, Suzanne dà vita al progetto del Tabu Dada, un breve esperimento in cui spiritualità e rigore compositivo trovano un equilibrio inatteso. In Intimité (1921), le linee morbide e i toni ovattati evocano una dimensione privata e sensuale; in The Wedding (1924 circa), l’unione affettiva è tradotta in forme astratte e diagrammatiche, quasi una mappa relazionale.
Negli ultimi decenni della sua attività, Suzanne si allontana dalle avanguardie storiche. La sua pittura si fa più figurativa, ma senza mai perdere coerenza né slancio inventivo. Rimane fedele a una visione personale lontana tanto dai dogmi dell’astrazione quanto dalle derive surrealiste.
Una sezione della mostra è dedicata anche al legame con Marcel Duchamp, testimoniato da un fitto scambio epistolare. Un rapporto denso e sfumato, fatto di affetto e stima reciproca, ma anche di inevitabili gerarchie, la fama del fratello ha per lungo tempo offuscato la lettura autonoma del suo lavoro.
Questa mostra invita a liberare lo sguardo da quelle proiezioni. Suzanne Duchamp non è un’appendice del genio maschile, ma una delle rare artiste a prendere parte, con discrezione e forza, al ripensamento dei codici visivi del XX secolo.
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