Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, Credit Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
In quest’ultima porzione di anno solare, con Anna A. di Silvia Colasanti e soprattutto l’apertura di stagione 25/26 con Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitri Šostakovič, il Teatro alla Scala ha ribadito una posizione chiara e netta: non si può far musica, e dunque cultura, ignorando la cultura russa, i suoi capolavori, la sua eredità. La vita e l’opera di Anna Achmatova e di Šostakovič, al di là delle dolorose vicende che ne hanno segnato i destini, sono tra le testimonianze più alte e imprescindibili di questa eredità. Posizione, si diceva, ribadita, giacché tre anni fa la Scala aveva inaugurato la stagione con un altro grande titolo russo, il musorgskiano Boris Godunov.
L’apertura con il capolavoro di Šostakovič (ultima replica stasera, 30 dicembre) ha una duplice valenza: oltre a ribadire la legittimità di una scelta sancisce, quand’anche ve ne fosse bisogno, l’importanza storica di questo capolavoro, che risuona nella sala del Piermarini per la terza volta nella versione originale del ’34, mentre la prima a Milano, risalente al 1964, era nella versione ritmica italiana sull’edizione corretta e re-intitolata da Šostakovič Katerina Izmajlova. E le presenze della versione originale sarebbero state anche di più se nel 1959 la musica fosse arrivata in tempo alla Scala che l’aveva già messa in cartellone: il programma di sala riporta telegrammi scambiati fra l’allora direttore artistico Francesco Siciliani e il musicista.
Quest’opera è apparsa nel teatro milanese anche nel 1992 e nel 2007, dunque, se non di repertorio, Una Lady Macbeth non è certo oggetto misterioso alla Scala. La tradizione non poteva interrompersi, tanto più che oggi il capolavoro di Šostakovič risulta di drammatica attualità e di straordinaria complessità. Temi che, da soli, ne spiegano la vita tormentata sulle scene.
Due anni dopo i successi di Leningrado, dove l’opera debutta, arriva il fatidico 26 gennaio 1936, data di una replica moscovita alla quale assiste Stalin. Due giorni dopo esce sulla Pravda la stroncatura dal titolo Caos anziché musica che segna il punto di non-ritorno per la vita di Šostakovič. Musica che «Grugnisce, rimbomba, sbuffa, ansima»: viene in mente l’intonarumori del futurista Luigi Russolo. L’articolo, non firmato ma riconducibile ad Andrej Ždanov, deus ex machina della politica culturale sovietica nel periodo più buio dello stalinismo, bolla l’opera di “nevrastenia” e “rozzo naturalismo”. In effetti la nevrastenia esiste ma in quanto rappresentazione di quella stessa nevrastenia che segna le turbe di un regime, e ancor più quelle del suo artefice, il “Piccolo padre”. È la formidabile bravura del compositore, che fa bingo nel cogliere in musica proprio quella “nevrastenia di regime”.
Il giovane Šostakovich in quest’opera è ancora ignaro del destino che lo attende. Non è costretto per sopravvivere a praticare il camuflage costruendo la sua musica attraverso la citazione di frammenti di musica preesistente ma già si scorge qualcosa di quel futuro, forzato atteggiamento. Da Musorgskij al Cabaret, da Mahler e l’Elektra di Strauss alla musica da parata militare: nei primi anni Trenta e fino alla sciagurata replica moscovita cui assistette Stalin, Šostakovič era ancora “spirito libero”, non obbligato a inzuppare la sua musica con musica d’altri, seppur metabolizzata dal suo genio. Un solo esempio: nel Quinto quadro Katerina finge di piangere la morte del suocero intonando il celebre tema russo già presente nella Scena dell’Incoronazione del Boris musorgkiano, e prima ancora nel Trio del Quartetto Razumowsky op.59 n. 2 di Beethoven.
Affrontare in sede di interpretazione musicale e di messa in scena Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk significa fare i conti con questi aspetti. La musica, pur ricchissima di dettagli, serve le ragioni del teatro e i dettagli sono apprezzabili solo se viene sfoderata un’eccezionale prestazione dell’orchestra. Riccardo Chailly, al suo ultimo 7 dicembre come Direttore musicale alla Scala, ci ha messo non solo l’anima ma anche la forza di un’idea interpretativa ben precisa, affermata grazie a un grande sforzo intellettuale oltre che fisico (il malore che lo ha colpito alla terza recita è forse figlio anche di questi sforzi). Lo stesso vale per la prova del coro, istruito con maestria da Alberto Malazzi.
A monte c’è poi l’attenzione per la riproposta della versione originale, proseguendo la consuetudine seguita con Puccini e con il citato Boris, ed ora con la Lady Macbeth arricchita da ulteriori modifiche basate sul manoscritto mostrato a Chailly dalla vedova del compositore, Irina Antonovna.
Il giovane regista russo Vasily Barkatov è, dice, distante dal suo Paese e dal governo di quel Paese. In Italia ha destato polemiche con una Turandot a Napoli e un Don Giovanni a Caracalla. Qui, data l’occasione, per non rischiar di forzare s’è limitato ad alterare l’ambientazione, dall’Ottocento contadino a una metà Novecento borghese, non ha ecceduto sul pecoreccio, rischiando il paradosso di far apparire sin goffi gli “accavallavacca” di Katerina (Sara Jakubiak maiuscola in voce e in scena) con l’amante Sergej (Najmiddin Mavlyanov), ha inventato un divano-letto per far apparire e sparire il fantasma del suocero Boris (ottima prova di Alexander Roslavetz), poi evocato anche con ombre alla Nosferatu di Murnau. Insomma, niente sfracelli ma con una sola eccezione, che brucia, e molto.
Sia il racconto di Leskov che il libretto dell’opera parlano di Katerina che annega portandosi dietro la rivale Sonetka. Gli annegamenti in teatro hanno una storia. Nel Wozzeck di Berg, che il giovane Šostakovič vide a Leningrado nel ‘27, il povero soldato uccide Marie nello stagno per poi annegarvi. Prima della Lady Macbeth, lo stesso Šostakovič ha immaginato in musica la morte per annegamento di un’Ofelia ubriaca in una nuova versione dell’Hamlet di Akimov, per cui scrisse le musiche di scena. A Barkhatov questa tradizione non interessa, e la “brucia” con una trovata che vuol lasciare a bocca aperta (e narici affumicate) il pubblico. Prende due stuntman che con tuta ignifuga si danno fuoco, sostituendo l’elemento pirico all’acqua come attore di morte. Chi se l’è vista davanti, quella scena, una notte di giugno, non lontano dalla Scala, con la donna che prendeva fuoco e non moriva per finta, si chiede perché deve uscire dalla sala con l’odore acre di estintore.
A volte pare che il teatro insegua stancamente il cinema senza neppure riuscire a emularne gli effetti speciali. Le formidabili soluzioni strumentali di Šostakovich non bastano più a lasciare a bocca aperta, e l’annegamento pensato dagli autori ormai non è soluzione tanatologicamente efficace. Abituiamoci.
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