Il lavoro di Kevin Francis Gray è assolutamente “epidermico”; stabilisce un contatto immediato poiché stuzzica il piacere della vista. E si resta abbagliati, stupiti, immobilizzati.
Il rischio che si corre è di non vedere altro che la superficie delle cose: la pelle, quel vestito sensibile e ingannevole con cui spesso la vita nasconde il vero, il senso. Un rischio che Gray vuole correre fino in fondo negli swarosky luccicanti dei suoi cani che, disposti a cerchio, latrano l’uno contro l’altro,
Ed è forse proprio il desiderio una delle chiavi: quello che l’artista suscita in noi nei colori, nella materia preziosa. Ed esso è tanto più forte quanto più lontano o irraggiungibile. Come la preda sottratta ai cani o gli strumenti musicali della pop band. Come la batteria ricoperta da uno strato di pelle marrone di cui non si vedrà più l’acciaio luccicante, né si sentirà più lo sbattere dei piatti, ma un rumore sordo: la musica senza il suono.
Tutto urla “lo voglio!” Anche la vernice rossa delle ragazze della band o i loro gesti esasperati. Tutto sembra bloccato, concentrato nell’attimo in cui l’arco trattiene fino alla massima tensione la freccia. Ma l’artista impedisce a noi (arcieri) di scoccare, lasciandoci un senso di vuoto enorme.
Il lavoro suscita in noi un desiderio e poi lo sottrae. In realtà il meccanismo messo in
Così del glitter nero e il marchio di una scarpa Nike vestono la figura di un giovane uomo che sta per iniettarsi probabilmente una droga. Hanno largo consumo, sia quest’ultima che quelle scarpe, in una società “decadente” e kitsch in cui la violenza si accompagna spesso al desiderio e al piacere.
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