È multilivello e intrinsecamente contrastato il secondo agone del Pan a confronto col “bene comune”. Stabilire cosa è pubblico o privato, nell’era della superesposizione mediatica, del degrado sociale e della privacy in fumo, è imbattersi in paradossi e duplicità.
Paradossi che si specchiano nelle opere in mostra, in cui i lavori meno appariscenti sono i più stimolanti per il dibattito; duplicità che sfugge, però, a un automatismo manicheo tra spazio esterno e interiore, abbinando opere delineanti i confini dello spazio pubblico in una prevalente ottica concreta ad altre che ne indagano il traslato metaforico e psicologico, sovvertendo anche l’iniziale lettura.
Si parte con la sardonica critica di
Cesare Pietroiusti alle istituzioni dell’arte, incapaci di coinvolgere larghe fasce di popolazione: silenziosa, a-teatrale,
esterna allo spazio espositivo, eppure estremamente pregnante. Riscalda dal gelo dell’esclusione la cupola dell’abbraccio tessile di
Kaarina Kaikkonen, scenografica o, meglio, “coreografica”, dato che dirige evocate presenze esistenziali in un rito di partecipazione che, da architettonico, diviene psichico. Accattivante pur se omologatamente neopop – come industriali caramelle visive offerte alle viziate papille ottiche del pubblico, intossicato dall’immagine mediatica – il video di
Mieke Gerritzen, inquieto e con l’amaro retrogusto della manipolazione.
L’avvolgente architettura di
Sissi fluisce dal reale a un lirismo proseguito dalla silente opera-performance di
Sabrina Mezzaqui, che coniuga magistralmente intimismo e impegno, scansione emotiva e spaziale, esperienza ed estetica. “Abbracciando” col passo l’inno di Borges si restituisce ritualmente centralità a
I Giusti e si performa lo spazio, acquisendone coscienza e svelando l’euritmia di una forma insieme pittorica e scultorea.
Anche il silenzio di
Niklas Goldbach nel sottovoce degli impercettibili disegni deflagra intenso nella denuncia delle periferie egualmente invisibili allo Stato, evocate anche dal più oleografico
Fikret Atay. L’opposto clamore di
Giuseppe Stampone, coinvolgente ma bozzettistico, porta alla coscienza del virtuale, mentre il non inedito funzionalismo ipertrofico di
Michael Beutler evidenzia l’inutile nelle strutture sociali.
Lorenza Lucchi Basili riflette non senza consapevolezza tecnica e poetica sullo slittamento tra pubblico e impersonale; proprio sul personale vertono invece l’intensità autobiografica performativa di
Nico Vascellari e
Janaina Tschäpe.
Merito non indifferente della mostra è rendere accessibili i video di
Vito Acconci e quelli proposti da
Gerry Schum, che sostanziano il percorso con gli antecedenti storici della riflessione sullo spazio e sulla diffusione pubblica e mediatica dell’arte, con lo stimolante accostamento ai recenti esperimenti di
Kuba Bakowski.
In fondo, il “pubblico” va affrontato con un sorriso, sincero nell’affettiva ricerca di approvazione di
Kate Gilmore o malfido e prontamente dissacrato, come per i dittatori di
Vedovamazzei. Purché non sia inconsapevole e, come suggerito dall’installazione estetica ed etica di
Melita Rotondo, continui pur nell’ironia a pretendere rispetto per la libertà.