Esorcismo collettivo dopo inferni di terrore e purgatori diplomatici. Instrumentum regni per mostrare i muscoli sul ring della politica. Corteo carnevalesco, col carrozzone di cartapesta che sfila tra la calca schiamazzante. Perché cosa c’è di più grottesco di un funerale senza il caro estinto? Queste e tante altre considerazioni dovettero affacciarsi nella mente di Thomas Hirschhron (Berna, 1957), di fronte alle solenni esequie di Yasser Arafat nella striscia di Gaza, in cui il feretro senza morto sembrava scivolare su invisibili cuscinetti a sfera. Riflessioni concretizzate in questa variazione sul tema-bara, affrontato contemporaneamente anche nella personale in corso ad Hannover, optando qui per una nuance a dir poco attuale, drammaticamente attuale: verde Hamas. Ed ecco la cassa far da grancassa agli umori della folla sottostante, che annaspa, spinge, sorregge o minaccia di schiantarsi sotto il peso di quel sarcofago vuoto sì, ma zavorrato col fardello del Mito e tutto il superfluo indispensabile. Un miracolo che, nel tumulto della processione, quel bazar non scivoli via dal coperchio inclinato, dov’è disposto in elvetico equilibrio.
Un disciplinato merzbau regolato da leggi interne, raggruppato per generi e allineato per simmetrie. Un pacchiano roof garden con imitazioni di borsette griffate e leccornie di plastica, accanto a scacchiere e riproduzioni di capolavori. Tutto apparecchiato sulla tovaglia del risentimento integralista. Monumento all’ingegno e alla bellezza, ma anche sacrario del consumismo, probabile corredo funerario della top-icona che tappezza i lati corti del catafalco. Forse è lei, la dea che vive di soli crostacei, l’inquilina dello “scatolone” ligneo, scortata al camposanto da una selva di polsi eletti e rosati, ingentiliti da cinturini sbarazzini e quadranti scintillanti, sbocciati dall’aggrovigliato serpentario della mousse verde.
Il glamour oltre la vita? Poveri illusi. Hirschhorn mette fisicamente con le spalle al muro, lasciando pochi centimetri di passaggio sui lati lunghi, per vibrare, dritta negli occhi, la staffilata. O meglio, scagliare la bomba, con un coscienzioso taglia e incolla di corpi martoriati da esplosivi e proiettili. Immagini insostenibili, censurate perfino dall’informazione più sensazionalistica, quella dei titoli strillati che, ravanando tra i cascami della retorica, batte a caratteri cubitali le più incomprese e sputtanate tra le parole: povertà, speranza, guerra e pace. Grazia botticelliana e barbarie truculenta, opposte e conviventi in uno scontro tra esaltate civiltà, ingigantito e poi asfissiato in chilometri di scotch.
E allora… quanto benessere è fertilizzato dalla carneficina? Chi muove le pedine sullo scacchiere della Storia? Chi schiuma rabbia verde tra quelle braccia senza volto? Domande retoriche, che non inceppano la fluida, sbilenca meccanica del corteo. Un ultimo viaggio collettivo, gita di massa alla deriva, a bordo della Zattera della Medusa. Tutti sulla stessa barca. Anzi, dentro, sopra e sotto la stessa bara.
anita pepe
mostra visitata il 6 aprile 2006
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