Niente sesso siamo inglesi? Macché! Forse ai tempi della regina Vittoria era così, ma da un pezzo la britannica pruderie è decisamente andata a farsi benedire, messa in soffitta insieme a pizzi, cuffiette e crinoline. Una rivoluzione a corpo libero che, dai prati di Ascot all’erba degli stadi, dove sovente si esercita l’albionica propensione all’esibizionismo, raggiunge adesso l’acme della riconciliazione con le forze della natura nel “Giardino delle rose” di Liz Neal (Galles, 1973). E qui ne succedono davvero di tutti i colori. Anche dal punto di vista più propriamente cromatico. Perché per questo sgargiante porno panico l’artista, fedele alla consegna del rappel à l’ordre suonato dal suo grand Mogol Charles Saatchi –il quale, dopo averla lanciata in “New blood”, ad ottobre la riaccoglierà nella terza puntata della megacollettiva “The triumph of painting”- non ha certo lesinato su tele e tubetti, immortalando una sequenza di accoppiamenti consumati in una tripudiante cornice di lussureggianti verzure.
Amplessi senza complessi tra umani o creature mitologiche dipinti con mano larga e veloce, congiungimenti tra figure dai volti illeggibili (ma chissà perché quella coppia che se la sbriga more ferarum s’associa liberamente a Carlo&Camilla) e secondari rispetto ai corpi nudi e crudi, immersi in un contesto volutamente e programmaticamente esorbitante, connesso per certi versi alla scontata equazione barocco-kitsch.
L’intenzione è quella di riprodurre gli horti all’italiana e così, tra un arco e una voluta di marmo, toccando e ritoccando fiorellini e foglioline, la Neal da illustratrice di un disinvolto Kamasutra silvestre si trasforma in miniatrice dal pollice verde, con un occhio di riguardo verso una classicità citata di rapina nelle architetture e nelle iconografie (vedi il dittico coi due rudi giovanotti modello Stanley Kowalsky del terzo millennio).
Una pittura, questa, che vive tutta in superficie, compiaciuta e paga soprattutto nella propensione esornativa, il cui contenuto scabroso finisce col diventare ammiccante pretesto e cassa di risonanza per una serie di esercizi di stile tortuosi e carichi nel segno, ma lineari e leggeri nella finalità, che è primamente quella di riempire lo spazio. Sicché, tra ghirigori damascati e folti cespugli, contaminata dai feticci di una quotidianità consumistica molto più triviale del sesso sfacciatamente ritratto, la festa dei sensi en plein air diventa sbracato e ridondante baccanale del trash che avanza.
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anita pepe
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