Suonala ancora, Sol. La richiesta arriva da Napoli e all’amico, si sa, non si può dire di no. E allora ci si siede al pianoforte, pardon al tavolo da disegno, e si spediscono oltreoceano istruzioni che un esuberante plotoncino di assistenti, tutti under-thirthy come il “capitano” Angelo Volpe (esecutore materiale del maestro nello Stivale), non aspetta altro che di materializzare. Ai ragazzi tocca il lavoro sporco, che però risciacqua le pupille e mette l’adrenalina nei pennelli. A tutto il resto ci ha già pensato lui. Pensato , appunto.
As time goes by, il tempo passa, ma Sol LeWitt (Hartford, 1928) no. E così, dopo il rarefatto teatro del soave Giulio Paolini, le pareti del primo piano di Palazzo Partanna prendono a danzare grazie alla coreografia di uno dei padri pellegrini del XX secolo approdato indenne oltre la frontiera del terzo millennio. Ritmo e armonia nei sei wall paintings regalati ad Alfonso Artiaco, arcobaleni in sbarra e in banda, in fascia e in palo, rigorosamente riquadrati di nero, a segnare il limite di una vibrazione che a tratti si chiude e s’espande nell’onda concentrica.
Si dirà: niente di nuovo sotto il Sol. Innegabile, ma un po’ di buona musica si ascolta sempre con piacere. Paragone, questo, inevitabile e insistito, quando si ha a che fare con lo statunitense, le cui nozze col mondo delle sette note datano al lontano “matrimonio mistico” con Philip Glass (per il quale disegnò la copertina di un album) e proseguono tuttora, senza tradimenti né cedimenti. Perché LeWitt è così: duro e puro. E allora bisogna stare attenti a non cadere nella trappola delle facili conclusioni.
Infatti, se è ammissibile che il suo variopinto linguaggio sconfessi una certa banalizzante equazione minimalismo-pauperismo, è anche vero che la libera associazione tra technicolor e fantasia in questo caso è assolutamente fuori luogo, spazzata via dalla combinazione ragionata degli elementi in una partitura ricca di toni e semitoni, ma vigile sulle dissonanze.
Ed è proprio in questa impaginazione sofisticata ma non astrusa, in questa logica ermetica ma non incomprensibile dell’orchestrazione cromatica che s’instaura una possibile comunicazione anche con lo spettatore meno educato. Senza colpevolizzare il piacere di una fruizione puramente estetica con l’offerta di una pittura sensibile, nel senso fisico della parola, e perciò profondamente psichica. Ricordate cosa diceva l’altro ieri un certo Kandinsky? “Il colore è il tasto. L’occhio il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde”. Altro che new age.
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anita pepe
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