Categorie: parola d'artista

STUDIO VISIT | Wim Delvoye e la sua “bottega” globale

di - 23 Febbraio 2013
Gianni mi aspetta al parcheggio dei taxi della stazione Ghent-St.Piters, nel cuore delle antiche Fiandre, la terra di pittori raffinati e misteriosi come Jan e Hubert Van Eyck, che oggi è il Belgio. È fiammingo, di italiano ha “solo il nome”, dichiara sorridendo. Pochi minuti di macchina, e arriviamo allo studio di Wim Delvoye, 48 anni, uno degli artisti di questo Paese più affermati sulla scena internazionale, fin da quando nel lontano 1992 partecipò alla mostra Post Human (curata da un Jeffrey Deitch agli esordi) con una vetrata dipinta a forma di porta da calcio, per riflettere sulla natura paradossale degli oggetti in rapporto alla loro funzione.

Ho detto studio, ma dovrei dire bottega, una sorta di bottega del Ventunesimo Secolo, che ricorda in maniera impressionante l’atelier dei maestri del Rinascimento, da Verrocchio a Raffaello. L’artista come protagonista della scena culturale nazionale? È uno status che oggi viene riconosciuto dalla società di Paesi del Nord Europa, dalla Germania al Belgio alla Gran Bretagna, mentre in Italia è considerato un’alternativo, marginale e fuori dal mondo. Una condizione già annunciata dall’imponente cancellata metallica, in perfetto stile tardogotico, che unisce le due ali di un edificio in mattoni e vetro, davanti alla quale lasciamo la macchina. «Siamo arrivati da Wim», annuncia Gianni col suo inglese indurito dalle rauche sonorità fiamminghe: venti secondi dopo, superando una fastidiosa e gelida pioggerellina invernale, siamo già nell’ingresso, dove regna un’attività frenetica. Tre o quattro energumeni stanno caricando casse di dimensioni impressionanti in un camion parcheggiato all’interno. «Per trasportare le opere di Wim non usiamo trasporti d’arte ma quelli industriali, abituati a trattare oggetti di dimensioni considerevoli». Dove vanno? chiedo ingenuamente. «Tra una settimana dobbiamo montare il padiglione di Wim ad Art Dubai. Ha deciso di partecipare come artista, senza gallerie».

A sinistra, una lunga sala rettangolare assomiglia ad una Camera delle Meraviglie, dove il kitsch si mescola all’altissimo artigianato. Mi avvicino ad un Nautilus in acciaio, traforato come un merletto gotico, che alla fine del 2012 era esposto su un lungo tavolo impero nelle sale Napoleoniche del Louvre. Lo avete realizzato qui? «Qui non si fa nulla direttamente. Wim prepara i disegni, uno dei ragazzi del nostro team li trasforma in file e poi vengono inviati nelle migliori fabbriche del pianeta per costruirli, e una volta finiti tornano qui. Il Nautilus è stato eseguito vicino a Praga: gli artigiani dell’Est Europa sono i più precisi in assoluto».

Mi guardo intorno, e provo ad immaginare da dove prevengano i coccigi in marmo rosso, le vetrate dipinte con le radiografie del corpo umano, le vanghe in ceramica dipinta con i motivi bianchi e blu delle ceramiche di Delft. In fondo, un set fotografico perfettamente allestito, con i fari già accesi. «Tra poco Anton inizia a riprendere tutti i materiali per Art Dubai: nel nostro gruppo è lui che si occupa delle immagini per cataloghi, libri, mostre e altro. Ora andiamo al primo piano, Wim ha quasi finito una riunione e ti riceverà su». Così, se al pianterreno prevale la realtà fisica, al piano superiore vince il virtuale: una decina di computer accesi su grandi tavoli, e sei trentenni di varie nazionalità che lavorano davanti agli schermi. Alle pareti, una serie di fotografie con opere di Wim inserite nei contesti più curiosi, dalle dune del deserto alle isole tropicali, degne di un film di 007. «Ognuno al suo posto: qui si lavora sui progetti e gli allestimenti, qui sulla catalogazione delle opere, qui si producono i cataloghi e qui invece ci si occupa della movimentazione – spiega Gianni – mentre Sabine si occupa delle questioni amministrative».

Arriva Wim, che mi racconta di come in pochi anni lo studio si sia allargato, fino a coinvolgere dieci persone. «È stata una cosa graduale, ma nell’ultimo anno il ritmo è forsennato, nonostante la crisi. Lavoro sempre: anche quando passo due ore con la mia fidanzata, poi mi sento in colpa». Gli indico l’immagine di una sorta di castello metallico inserito tra le isole lussureggianti di una costa tropicale. «Questo spero di realizzarlo nelle Filippine, in questa baia così scenografica». La mostra più complessa?  «Il Louvre. Ci abbiamo messo anni per capire se era possibile farla come volevo. Dopo decine di riunioni, siamo arrivati ad un compromesso. Non abbiamo coperto la Piramide come volevo, ma collocato una grande scultura in cima all’ingresso: una gigantesca doppia guglia gotica e un gruppo di opere più piccole nelle sale Napoleoniche». Mi fa vedere il suo sito personale, simile ad una città: la biblioteca con tutti i testi, il grattacielo con le opere verticali, il Louvre ed altro. «Siamo tutti un po’ bambini» sorride Wim, mentre prepara i prossimi appuntamenti intorno al globo, con l’aiuto di sponsor come Vuitton o Mercedes Benz.
Esco dallo studio un po’ frastornato, e penso a Phileas Fogg, l’eroe del Giro del Mondo in Ottanta Giorni, uno dei primi ad immaginare di poter avere il pianeta in mano. Che mi piaccia o no, Wim Delvoye è il primo artista globale che abbia mai incontrato. E l’idea di tornare nella nostra piccola e triste Italietta mi mette tristezza.

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