Anche Sergio Citti (Fiumicino, 1933) si aggiunge, purtroppo, alla lista degli artisti scomparsi che hanno fatto grande il cinema italiano negli anni Sessanta e Settanta, prima dell’Apocalisse. Dopo Federico Fellini, Renato Rascel, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi e Albertone, ci lascia l’amico eterno e fedelissimo collaboratore di Pier Paolo Pasolini. Capace anche, però, di forgiare uno stile proprio, che chiaramente deriva da quello del maestro-fratello, ma che riesce a sviluppare e ad evolvere il suo modello, adattandosi proprio alle trasformazioni drammatiche dell’Italia post-1975.
Allora, la visualità cinematografica di Citti vira decisamente verso il grottesco, trasfigurando la poesia del post-neorealismo (dai casi letterari di cui egli è praticamente coautore (e consulente per il dialetto romano a vantaggio del friulano Pasolini, Ragazzi di vita e Una vita violenta, fino a Salò o le 120 Giornate di Sodoma, 1975) in una sorta di horror morale. Le vicende dei disgraziati e degli scellerati, figli e nipoti dell’archetipo Accattone (1959), sono dipinte da Citti -sotto la guida attenta ed affettuosa di Pasolini- a tinte forti e fosche, con un gusto barocco e debordante che lo accomuna, negli stessi anni, a Fellini (Satyricon, 1969, Amarcord, 1973, Casanova, 1977) e per certi versi anche ad un altro regista, lontanissimo nel genere e negli interessi: Lucio Fulci (soprattutto la trilogia composta da Paura nella Città dei Morti Viventi, L’Aldilà, Quella villa accanto al cimitero, 1980-81).
Lasciando da parte lo stra-cult Febbre da cavallo (Steno, 1976), che da solo basterebbe a garantirgli un posto di tutto riguardo nella storia del cinema, in film come Ostia (1970), Storie Scellerate (1973) o il bellissimo Casotto (1977), con una adolescente Jodie Foster, Gigi Proietti, Cathrine Deneuve, Mariangela Melato, Michele Placido ed Ugo Tognazzi, Citti riesce a deviare e a proseguire in maniera dignitosissima (e ricca anche di ulteriori spunti) l’opera di rifondazione delle immagini che aveva caratterizzato a tutto tondo l’intera attività di Pasolini.
Fino agli ultimissimi Vipera (2000) e Fratella e Sorello (2005), film certo modesti, che soffrono la pressione economica e psicologica della produzione postmoderna, ma che dimostrano se non altro l’abilità dell’autore nel circondarsi di nomi normalmente considerati ‘inavvicinabili’ (come Harvey Keitel e Giancarlo Giannini), e che comunque si stagliano come operae magnae se paragonate ai lungometraggi –quelli sì mediocri, e senza attenuanti- del ‘Giovane Cinema Italiano’.
E allora ripensiamo al boccacciano Ser Ciappelletto, interpretato dal fratello Franco, che all’inizio del Decameron uccide a bastonate, come una bestia, un povero malcapitato rinchiuso in un sacco: ma il più grande peccatore diventerà il più grande santo. È così che funziona. Vero Sergio?
christian caliandro
[exibart]
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ops... alimorté (l'accento ce piasce acuto)
aho davero?
alimortè!
"DOVE CI STAI PORTANDO?" "CHE CAZZO NE SO?!?"
Sergio Citti "Il Minestrone" (era l'ultima battuta del film, pronunciata da Giorgio Gaber)
Ciao Sergio, era bello vedervi quando mangiavate a Fiumicino.
visto che si tratta di Citti, più che alimorté direi Mortacci...