Categorie: Personaggi

Grazia guarda altrove |

di - 6 Febbraio 2006

Lo spirito di queste conversazioni è presentare informalmente l’attività professionale di critici e curatori. Un’attività che comporta una determinante partecipazione intima e personale. Iniziamo quindi con qualche indicazione da curriculum.
Alla fine degli anni Ottanta, dopo una laurea in storia dell’arte contemporanea a Pavia, collaboravo con riviste di arte e di moda. Nel frattempo assistevo Salvatore Ala nella gestione della sua galleria a Milano. Ma avevo due sole idee in testa: imparare e poi andare via. Altrove. “Una parola più bella dei più bei nomi”, diceva André Gide.

Quale fu questo altrove?
Non trovavo terra sotto i piedi. E se la trovavo qualcosa non funzionava. Pasquale Leccese, nella cui galleria Le Case d’Arte passavo un pomeriggio di noia di inizio estate, mi parlò per caso dell’École du Magasin a Grenoble: formazione, ambiente cosmopolita, lavoro sul campo. Era quello che faceva per me. Meno di un anno dopo, fui selezionata, feci due valigie e partii per la Francia. Fu un’esperienza faticosa ma elettrizzante, ricchissima e unica, che mi ha permesso soprattutto di definire l’idea –un po’ confusa- che avevo dell’essere curatore, del suo ruolo a fianco dell’artista e presso il pubblico.

Un’esperienza che ti ha offerto grandi possibilità.
Si. Fui mandata a fare uno stage nell’allora giovanissima Fondation Cartier pour l’art contemporain, alle porte di Parigi. Solo quindici giorni. Il curatore di allora, Jean de Loisy, mi propose in seguito di restare con il titolo incerto di chargée des expositions. Era il 1991, Parigi mi si apriva davanti, il mio altrove cominciava a profilarsi. Benedissi Gide che mi aveva spinto ad imparare il francese.

E allora, sintetizza la tua carriera fino ad oggi.
Alla Fondation Cartier ci lavoro ancora, dopo quindici anni, come curatore. Questa istituzione privata, a forte vocazione pubblica, si è evoluta magnificamente, trasferendosi nel 1994 dalla banlieu parigina al cuore di Montparnasse, in un edificio costruito da Jean Nouvel. Ha sviluppato una collezione di più di mille opere, di cui oggi sono la responsabile, con una buona percentuale di lavori commissionati e prodotti.

Nel 2004 la Fondation Cartier ha festeggiato i suoi primi vent’anni, l’occasione giusta per fare un resoconto…
Insieme al Direttore, Hervé Chandès, abbiamo presentato la prima mostra personale europea di Matthew Barney, nel 1995. Da qui è partita la scoperta o la riscoperta di artisti come Francesca Woodman, William Eggleston, Chuck Close. Abbiamo dato spazio a personalità come Alain Séchas, Hiroshi Sugimoto, Thomas Demand, Takashi Murakami, Alessandro Mendini. A tutti abbiamo dato carta bianca, spingendoli a realizzare un progetto che coinvolgesse interamente gli spazi di esposizione. Trasformando ogni mostra in un avvenimento.

Nel frattempo, però, l’altrove premeva ancora!
Si. Scoprendo Barcellona e la sua vitalità culturale, mi sono ritrovata a curare due cicli di mostre per la Fundaciò Joan Mirò, dal 2001 al 2003. Ho presentato il lavoro di artisti come Daniel Chust, Grazia Toderi, Vik Muniz, Aernout Mik. Nel secondo ciclo, tematico, ho sviluppato una ricerca sulla psichedelìa e sul ritorno di questo fenomeno nel lavoro di artisti più contemporanei. Così il ciclo Psychodrome ha preso forma con lavori di personalità come Franz Ackermann, Beatriz Barral, Michel Gouéry, Mariko Mori, David Renaud, Ugo Rondinone. Franz Ackermann non aveva mai fatto una personale in Francia, nonostante la sua presenza costante in tutte le più grandi manifestazioni artistiche internazionali. Ho curato con François Quintin una sua grande mostra al Fonds Régional d’art contemporain Champagne–Ardennes (Reims), un progetto site specific che ha permesso all’artista di agire in diverse direzioni. Dal macroscopico al microscopico, dal globale al locale, dalla pittura di grandi dimensioni ad un gioco murale lievissimo.

Tutti questi progetti sono paralleli alla tua attività di curatore alla Fondation Cartier. Ma so che hai preso una pausa da questa istituzione.
Mi sono presa una pausa pop-rock (ma in queste settimane rientro a regime). Sono impegnata in un grande progetto alla Cité de la Musique di Parigi, un’istituzione unica in Europa, dove una regolare attività espositiva sul rock ha già portato a presentare al pubblico mostre eccellenti quali Jimi Hendrix Experience (2002) e Pink Floyd Interstellar (2003), curate con grande energia da Emma Lavigne. Con lei ho realizzato la più grande mostra mai fatta su John Lennon: Unfinished Music, aperta fino a giugno 2006.

Una grande mostra per un grande personaggio.
Lennon è un mito, e non per caso. Alla testa dei Beatles ha rivoluzionato la musica contemporanea e il modo di ascoltarla. Dopo l’incontro con Yoko Ono è diventato protagonista di un’avanguardia artistica e letteraria, prima di immergersi con grande sincerità in un impegno politico di portata significativa per tutta una generazione. Una mostra come questa è anche un’occasione per studiare la nostra storia, per approfondire il nostro passato recente. Gli avvenimenti sconvolgenti che la nostra generazione di quarantenni ha sfiorato, intuito, ma non del tutto vissuto, appaiono oggi alla luce della Storia come momenti fondamentali, di straordinaria intensità.

“Sforzatevi d’entrare per la porta stretta”. È la citazione dal Vangelo di Luca da cui Gide ha tratto il titolo di uno dei suoi libri più belli. La tue scelte sembrano rispecchiare questa sollecitazione. Quanto è stato difficile?
Parigi è più grande e più faticosa di qualsiasi città italiana, anche se può essere aperta e accogliente. La porta è sempre stretta, in ogni momento. Ma capita di accorgersi solo dopo di quanto le cose siano state difficili. Le rinunce e le sconfitte non sempre sono visibili da subito. Dalla porta stretta non può passare tutto, dunque qualcosa resta indietro. John Lennon diceva: la vita è ciò che accade mentre sei occupato in altri progetti. Ed è vero. Non si sta tutti i giorni a pensare a quanto sia difficile quello che si sta facendo o vivendo, non se ne ha il tempo. Ciò che è più difficile da vivere non è quello che si fa, ma quello che non si è riusciti a fare.

marcello smarrelli

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 27 – dicembre 2005/gennaio 2006
[exibart]

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