Categorie: Personaggi

L’intervista/Emi Fontana | For the love of Mike

di - 3 Luglio 2013
Complicato entrare nel lavoro di Mike Kelley per coglierne le profonde sfumature senza lasciarsi trascinare da un immenso caleidoscopio di forme e indicazioni, che pongono lo spettatore in un vortice centrifugo, in un abisso nel quale non sempre è facile trovare appigli. E difficile è far dialogare una serie di grandi installazioni negli spazi di HangarBicocca. Sono dati assodati, certo, ma attraverso i quali è terribilmente affascinante perdersi, nella penombra. In uno spazio che, senza i Sette Palazzi Celesti di Kiefer in bella vista, assume l’aura di una vera e propria warehouse della conoscenza, in un trip lucido che scopre non solo la commistione tra musica e arte, cultura alta e “popular”, indicazioni personali e sociali, ma che getta anche una serie di luci precise sulle fascinazioni che accompagnano la produzione di Mike Kelley. Queste le premesse per introdurre la lunga intervista con Emi Fontana, ex compagna e gallerista dell’artista, con la quale abbiamo visitato la mostra – co-curata insieme ad Andrea Lissoni – che ha accettato di mettersi un po’ a nudo, per farci entrare tutto d’un fiato in una restrospettiva magicamente allestita, che vibra di tutta la presenza di Kelley.
Per prima cosa vorrei iniziare dalla mostra. In conferenza stampa si è detto che per un’esposizione del genere anziché un anno sarebbe servito molto, molto più tempo. Ci racconti un po’ il “dietro le quinte”? Com’è stato preparare il tutto e perché avete scelto il periodo della “maturità” di Kelley anziché proporre un taglio più antologico?
«Il “dietro le quinte” incomincia a essere storia nota: una telefonata di Andrea Lissoni a Los Angeles nel Marzo 2012; io stavo facendo le valigie per il Guatemala. Pensiamoci. Ero ancora troppo presa dal dramma della perdita improvvisa di Mike, il mese fuori Los Angeles serviva a riprendermi da quel dolore e staccare completamente dal mondo in generale, e in particolare dal mondo dell’arte: sono quei momenti in cui pensi “mollo tutto”, vado a vivere tra sciamani e guaritori, vedrò  tutte le prossime albe della mia vita sorgere ogni giorno dietro i vulcani che circondano il meraviglioso lago di Atitlán. Quando ero lì ho conosciuto parecchi occidentali che avevano fatto quella scelta; vecchi hippies che si erano trasferiti in Guatemala già negli anni ’60 o ’70. Abitavo in una capanna nella giungla, approfondivo la mia conoscenza  dello yoga ed ogni giorno fotografavo il sole che sorgeva dietro il vulcano. Al lago ho affidato tutti i miei dubbi e miei dolori. In realtà proprio in quel momento lontana da tutto, credo di aver capito di voler continuare a far sentire la mia voce all’interno della comunità dell’arte; ho sentito il supporto e l’amore che veniva proprio da quel mondo. E anche per Mike, per dare maggior valore alla sua vita, che pure era stata eccezionale per via del suo talento e anche per quel suo gesto finale così drammatico e d’irrevocabile rottura. Credo che quest’antefatto aiuti a capire quanto la mostra dell’Hangar Bicocca scaturisca veramente da un dialogo profondo e interno, uno di quei momenti in cui cerchi di dare un vero significato alle cose e quindi nessuna scelta è casuale, ma fatta con molta lucidità e precisione. Spero che questo si rifletta nella mostra. Andrea ha saputo seguirmi in questo viaggio con grandissima sensibilità, lasciandomi tutto lo spazio di cui avevo bisogno e da vero professionista, intuendo che il risultato sarebbe stato eccezionale. Tra una cosa e l’altra siamo diventati operativi solo a Maggio del 2012. La scelta di concentrarsi su un periodo limitato tra il 2000 e il 2007 (salvo Banana Man, del 1983) scaturisce da motivazioni diverse e molteplici, tra cui il fatto che c’è in corso una retrospettiva, già pianificata da diversi anni, quando Mike era ancora in vita, ma anche dal desiderio, che  da un po’ di anni accompagna la mia pratica curatoriale, di trovare ed esplorare sempre nuove strategie di esposizione. Per un artista con un percorso così ricco è intenso come quello di Kelley la scelta più ovvia sarebbe quella di mostrare esempi di momenti diversi della sua ricerca, ma in realtà mi sono chiesta cosa sarebbe successo se ci fossimo concentrati solo su un periodo limitato, ma andando veramente in profondità. E poi ci sono anche altre motivazioni contingenti, come il fatto che avevo deciso di partire da me e dalla mia relazione con Mike, professionale e sentimentale, che nel 2000 ha dato i suoi primi frutti con la mostra a Milano nella mia galleria, ora felicemente chiusa, con un progetto su cui in realtà lavoravamo già dal ’98; poi ci sono gli spazi dell’Hangar Bicocca, che per la loro vastità, mi hanno fatto escludere qualsiasi lavoro a parete, per concentrarmi invece su grandi installazioni tridimensionali».
“Profundeurs Vertes”, che chiude “Eternity is a Long Time”, è forse l’opera più complessa del percorso, anche concettualmente. Che ricordo hai del modo di lavorare di Kelley rispetto a questa riappropriazione e decostruzione della storia dell’arte? Da quali punti partiva il processo creativo dell’artista? Come si svolgeva la genesi dell’opera?
«Mike conosceva molto bene la storia dell’arte; in generale aveva una cultura eccezionale, ed era molto ferito quando il suo lavoro veniva letto come anti-intellettuale: si sentiva in quel senso vittima di un’ingiustizia da parte della critica. Credo che ci sia nel sistema dell’arte una certa rozzezza e grossolanità che obbiettivamente, anche per me, ha sempre costituito un problema. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un allargamento dell’audience dell’arte contemporanea, cosa di cui io sono assolutamente favorevole, ma che purtroppo a volte si accompagna anche ad un abbassamento del livello del discorso, sembra che ci si accontenti sempre più di risposte superficiali e sembra che ci sia paura di approfondimenti. Ed è proprio in queste profondità che noi vogliamo trasportarvi: Profundeurs Vertes appunto. Se l’arte ha ancora una funzione nella società contemporanea è proprio quella di farci varcare determinate soglie, di aprire porte chiuse, di trasportarci in abissi in cui altrimenti non avremmo il coraggio di affondare: credo che questo sia l’insegnamento di Mike Kelley ed a questo ho voluto senza alcuna fatica dedicare l’idea della mostra. Mike aveva una capacità e una libertà associativa eccezionale; poteva partire da una cosa piccola e banale che nessuno avrebbe preso in considerazione e da lì costruire un mondo: poteva trattarsi di una vecchia foto, un giocattolo rotto o un quadro in un museo, tutto veniva trasformato; è in fondo una visione del mondo alchemica e tantrica, tutto è collegato, tutto ha un senso, “ciò che e di sopra è di sotto” come diceva Ermete Trismegisto. C’era in lui questo continuo flusso di pensieri e associazioni interessante e estremo. A un certo punto, in un momento qualsiasi della giornata quando apparentemente non stava lavorando, gli compariva quel mezzo sorrisetto a labbra chiuse che era una sua caratteristica: voleva dire che ha aveva avuto qualche idea, apparentemente folle e improbabile, probabilmente eccezionale. Se poi la condivideva, a volte si rideva fino alle lacrime e quel punto la sua risata diventava piena e profonda, ma a volte sghignazzava e non diceva nulla, poi correva ad annotare qualcosa, a schizzare un disegno sul quaderno. Ho già detto quanto la scrittura era importante nella genesi del suo lavoro, una scrittura che scaturiva direttamente dall’inconscio, e certamente il suo era un inconscio molto complesso. Ho sempre pensato che con le idee che aveva sarebbero potuti campare un altro centinaio di artisti!»
Visto che, anche a distanza di anni, nelle opere di Kelley tornano via via simboli e temi utilizzati anche in produzioni più giovanili, si può parlare di un’opera aperta in senso lato? Quali erano i riferimenti dell’artista, in letteratura come nell’arte?
«Come dicevo Mike aveva una cultura vastissima e onnivora e tutto per lui poteva essere fonte d’ispirazione. Volendo essere più specifici, l’opera di Freud era molto importante per lui, lo apprezzava molto per la scrittura, poi sempre per rimanere in campo psicoanalitico Winnicot e Melanie Klein. Conosceva a fondo il Surrealismo, sia nell’arte sia nella letteratura, ma queste sono solo alcune delle fonti, in realtà tutto veniva utilizzato nel suo lavoro: si, direi un’opera aperta, ma anche un’opera totale. E, a dispetto dell’eclettismo della forma, il suo lavoro può essere letto come un unicum e un continuum: c’è quest’aspetto del riciclo di fonti ed idee, che ricorrono nelle varie opere, ma c’è anche il filo rosso del suo dato biografico reale o costruito, l’apparire della sua persona, della sua mitografia individuale nella costruzione continua di cosmologie in cui il mondo viene continuamente smontato in frammenti  e poi ricomposto».
Mi sembra che “Rose Hobart II” sia il punto chiave della mostra: attraverso questa installazione il “vortice di forze” che contraddistingue la produzione di Kelley, e di cui parli anche nella conversazione con Andrea Lissoni, trovi una possibilità per essere indagato. Nell’andare carponi, ad osservare quello che di più oscuro c’è nella natura umana -un proibito che ha a che fare con educazioni, classi sociali, geografie e culture di una parte del mondo- c’è forse la chiave di volta dell’universo creativo di Kelley e della sua richiesta di guardare alle sue opere con una “trasversalità” quasi ossessiva?
«Sì è vero, Rose Hobart II è un’opera molto importante nel percorso della mostra. Ed è interessante che sia così importante perché è in un certo senso anche l’opera più invisibile, nera. Deve essere mostrata al buio, con i contorni debolmente illuminati da una luce bluastra, lo spettatore deve quasi sbattere contro questa forma all’apparenza minimalista, ma ancora una volta quello che sembra non è ciò che è o viceversa: per scoprire ciò che veramente è, dobbiamo andare in profondità; quindi Kelley invita lo spettatore a cambiare la posizione del corpo, a entrare a carponi nell’opera: questo nello specifico è un modo ricorrente nel suo lavoro. La prima volta che per fruire l’opera invita lo spettatore a strisciarci dentro è nel 1986 con Plato’s cave. In fondo se sei davvero interessato alla conoscenza, devi poterti abbassare, liberarti da qualsiasi senso di altezzosità o superiorità e andare a quattro zampe verso l’ignoto; alla fine non troverai una rivelazione sconvolgente e illuminante, ma solo lo spezzone di un film di serie B neanche troppo spinto, la trasgressione relativamente innocente e piuttosto stupida dei ragazzotti che fanno un buco nel muro per spiare nello spogliato delle femmine: tutto questo accompagnato dalla musica sofisticatissima di Morton Subotnik. Trasversalità, appunto».
Ci racconti un aneddoto legato a Mike Kelley, magari legato a un’opera in mostra all’Hangar Bicocca?
«Volentieri: Bridge Visitor. Legend Trip è un video molto bello, sul satanismo e sulla componente trasgressiva che esiste in questa forma di sub-cultura, che è vecchia come il mondo. Ed è anche una delle opere meno conosciute che abbiamo voluto inserire nella mostra dell’Hangar. Il video è realizzato in maniera relativamente artigianale, nella casa su Figueroa Street, nel 2004. Le forze del male si nascondono nelle tubature e nelle fogne, l’accesso alle profondità degli inferi avviene attraverso lo specchio delle acque increspate sul fondo di una toilette: possiamo dare una sbirciatina all’aldilà, utilizzando telecamere idrauliche. Mike voleva chiudere il video con l’apparizione di una figura nuda sul ponte, che nella sua testa dovevo essere io: me lo chiese in  una serata fredda ed io gli dissi che poteva scordarselo. Lui si era un po’ risentito e mi aveva accusato di non essere sportiva, così si era tolto i vestiti e la figura nuda che appare adesso sul ponte è proprio lui, probabilmente più satanico di me…».

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