Categorie: Personaggi

Myanmar, questa sconosciuta

di - 29 Gennaio 2015
Ilaria Benini e Thomas Nadal Poletto lavorano con continuità dal 2012 nel sud-est asiatico, cercando di promuovere connessioni e scambi tra le realtà artistiche locali e internazionali. Operano con il nome di Flux Kit ed il programma che hanno proposto recentemente a Yangon, “Contemporary Dialogues Yangon”, presenta voci diverse che operano in Myanmar, Cina, Giappone, Tailandia e Singapore. Ecco il racconto della loro esperienza.
Partiamo proprio dalla base. Dove ci troviamo quando siamo in Myanmar, e perché operare proprio in questa regione?
«Il Myanmar è una nazione del sud-est asiatico che si è aperta al resto del mondo solo recentemente (dalla fine del 2010), dopo quasi cinquant’anni di dittatura militare. Si tratta di un’ex colonia britannica, in una posizione geopolitica strategica, tra l’India, la Cina e la Tailandia. Lavoriamo in questa regione perché è molto stimolante in termini di ricerca e di pratica curatoriale: da un lato sta vivendo molti cambiamenti socio-politici e una crescita economica che garantiscono dinamismo ed entusiasmo, permettendo di sviluppare un’attenta sensibilità analitica rispetto agli equilibri economici del mondo. Dall’altro sperimentare in questo contesto con artisti e operatori culturali ci offre l’opportunità di decostruire il nostro background e lavorare con grande libertà intellettuale».
L’integrazione che proponete con i centri esistenti, così come con le figure che operano già in Myanmar, sembra una soluzione per evitare l’imposizione di modelli occidentali. Per esempio anche l’acquisizione di libri e il tentativo di far crescere una critica locale possono essere possibili strategie?
«Siamo arrivati in Myanmar con un progetto di ricerca indipendente, relativo all’impatto di Internet e della rinnovata libertà d’informazione sulla pratica artistica e per questo abbiamo iniziato a relazionarci con gli operatori del territorio. Il nostro obiettivo era di far nascere pratiche collaborative basandoci su relazioni profonde. Il tempo è una delle chiavi della nostra ricerca e, in questi termini, indubbiamente in Myanmar e nel sud-est asiatico la relazione con il tempo è decisamente diversa. Qui la scrittura e il pensiero critico sono limitati per questioni legate alla censura. Solo recentemente è diventato possibile pubblicare giornali e libri senza che ogni singola parola passi al vaglio di un ufficio governativo. L’ambiguità della rimozione dell’ufficio della censura è che molti giornalisti e autori si auto-censurano adesso, nel timore che le ripercussioni possano giungere post-pubblicazione. Come Flux Kit stiamo collaborando con il Myanmar Art Resource Center and Archive – MARCA, fondato da due artisti birmani e una ricercatrice americana. La missione del MARCA è di creare una biblioteca specializzata in arte contemporanea e costruire un archivio legato alle arti visive birmane. Al momento stiamo raccogliendo donazioni di libri e materiali d’archivio. La casa editrice italiana Charta ci ha donato 101 libri, oggetti ricchi di bellezza e contenuti che non si erano mai visti prima nel Paese. L’Asia Art Archive di Hong Kong ha donato circa 600 libri tramite il progetto Mobile Library: Myanmar, che ha inaugurato il 14 novembre all’Università della Cultura di Yangon. È la prima volta che l’Università permette a degli stranieri di lavorare nei loro spazi. Lo consideriamo uno dei successi più grandi dell’ultimo anno».
Come giudicate l’impatto del recente Festival “Contemporary Dialogues Yangon”? Quali erano gli obiettivi che volevate raggiungere e qual è stata la ricezione del pubblico?
«L’obiettivo principale era quello di creare una piattaforma aperta a tutti e che garantisse libertà d’espressione, stimolando l’incontro tra attori della cultura che abitualmente non dialogano, per diversità di campi d’azione o di scarto generazionale. La scelta degli ospiti è dipesa da questi criteri, quindi protagonisti di mondi artistici diversi (arti visive, poesia, cinema indipendente, teatro, letteratura) e di età diverse. Abbiamo creato situazioni prettamente locali e altre internazionali, insistendo sull’offrire a tutti la possibilità di relazionarsi con curatori ed artisti stranieri. I feedback sono stati molto positivi e ricchi di suggerimenti per la prossima edizione. Il più grande risultato è stato ottenere opinioni critiche, ci hanno dimostrato che gli eventi sono stati seguiti con partecipazione».
Oggi quanti scambi effettivamente ci sono con l’esterno? Quanti operatori nel settore dell’arte seguono effettivamente le indagini contemporanee condotte al di fuori dal territorio birmano?
«In termini di estero che arriva in Myanmar sicuramente l’ultimo anno ha visto un picco di visite. Grosse istituzioni internazionali, come il Guggenheim o il Palais de Tokyo, hanno mandato i loro curatori in visita, e numerosi galleristi stanno iniziando a lavorare sempre più intensamente con gli artisti locali. Si tratta in generale di esperienze molto private e “Contemporary Dialogues Yangon” ha voluto intervenire proprio su questo aspetto, offrendo situazioni pubbliche di confronto in cui anche gli artisti meno conosciuti potessero avere l’opportunità di conoscere curatori internazionali (Mami Kataoka, Iola Lenzi e Phil Tinari) e iniziare ad orientarsi nel sistema dell’arte globale. Sempre più artisti birmani stanno iniziando ad essere invitati all’estero per partecipare a mostre, festival e programmi di residenza. Esistono network molto forti tra artisti nel sud-est asiatico, nati in maniera spontanea e indipendente. C’è poi molto supporto istituzionale dalla Corea del Sud, il cui governo sta investendo in maniera straordinaria nella regione asiatica. Per quanto riguarda invece la conoscenza del contesto internazionale da parte degli operatori locali direi che è ancora estremamente limitata, perché l’accesso a Internet non lo permette, non c’è circolazione di materiale nel Paese (su questo vogliamo intervenire con il MARCA) e mancano le risorse economiche per viaggiare».
State progettando anche un programma di residenza?
«No, il costo degli affitti di Yangon e le autorizzazioni per ora non lo permettono. Esiste un solo programma di residenza ed è gestito dal New Zero Art Space».
La mostra inaugurale che lo scorso novembre avete realizzato nel Temporary Space di Flux Kit a Torino, “Tanah Impian / Dream Land”, che cosa proponeva?
«”Tanah Impian / Dream Land” è un lavoro composto da 24 serigrafie e 24 didascalie realizzato dal collettivo Krack! di Yogyakarta in Indonesia. È un viaggio attraverso l’ultimo secolo di storia indonesiana, in cui Krack! è intervenuto manipolando materiali visivi tratti dalla cultura popolare (campagne politiche, annunci, pubblicità, propaganda e molto altro) e offrendo al pubblico di oggi la possibilità di confrontarsi con l’immaginario indonesiano, tra post-colonialismo, orientalismo, alterità. L’opera è giocata sullo scarto tra il sogno e la realtà, tra ciò che viene annunciato/dichiarato e il corrispettivo reale, con riferimenti ai cambiamenti avvenuti a livello locale indonesiano e globale mondiale. La mostra è stata presentata a Torino da Antariksa, storico membro del KUNCI Cultural Studies Center e partner del progetto. Flux Kit ha avuto l’opportunità di utilizzare temporaneamente uno spazio nel centro di Torino per conto di una libreria che inaugura negli stessi locali con sezioni specializzate su Asia e arte: l’obiettivo è di costruire un percorso di collaborazione tra Italia, Europa e Asia per costruire pratiche di ricerca e produzione che consentano di sviluppare un dialogo interdisciplinare».
Rimanendo in Italia: sono molte le gallerie che seguono quel territorio? Come vedete questi “investimenti” in Myanmar?
«Non molte, è un territorio conosciuto principalmente dalle gallerie della regione, Singapore e Hong Kong in particolare. In Italia c’è Primo Marella che lavora con Aung Ko, attualmente in residenza al Palais de Tokyo. Per ora queste relazioni sono l’unico modo per molti artisti birmani di poter avere mezzi economici con i quali pensare, creare e sperimentare. La totale assenza di istituzioni, gallerie lungimiranti, critici, curatori e collezionisti d’arte contemporanea sono un enorme ostacolo alle idee e alla produzione artistica».

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